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Il femminismo radicale di Oz

di Chiara Lagani
illustrazioni di Mara Cerri

Dorothy non è la sola eroina che abita a Oz. C’è anche Betsy Bobbin, la ragazzetta dell’Oklahoma, che sopra una zattera alla deriva sull’oceano, in compagnia di un mulo e priva d’ogni altra cosa, finanche della paura, vaga raminga per un mondo sconosciuto alla ricerca di un posto in cui stabilirsi. C’è Trot, la piccola californiana protetta dalle fate che, affamata di conoscenza, in groppa a un Elicano si schiererà a difesa dell’amore oltraggiato. Poi c’è Ozma, la saggia sovrana; Glinda, la maga-madre; le streghe, buone o cattive che siano, tutte potenti; eserciti di fanciulle; stuoli di principesse…
Insomma, un plotone di personaggi femminili agguerriti e meravigliosi, a paragone del quale i protagonisti maschili appaiono assai più fragili e manchevoli. Siamo dunque in presenza di un autore radicalmente femminista?  La questione è molto più complessa, quel che è certo è che i personaggi femminili sono spesso indimenticabili e sempre forieri di mille domande. Pubblichiamo qui due piccoli ritratti per approfondire due tra i tanti personaggi-donne che compaiono nel labirinto delle storie di OZ: Jinjur, la rivoluzionaria e Glinda, la grande Madre del Regno.

Jinjur e la Città delle Donne.

disegno di Mara Cerri

 

Non tutte le donne sono felici a Oz, il più felice possibile dei regni. Un nutrito manipolo di giovanissime, capeggiato da un’amazzone fanciulla, il Generale Jinjur, è molto insoddisfatto del governo del Re Spaventapasseri, nominato sovrano dal Mago alla fine del primo libro.
L’apparizione di Jinjur nel racconto è folgorante: una ragazzetta, seduta sul bordo della strada, magnificamente vestita con una «barbarica» uniforme colorata, intenta a consumare la sua colazione di uova sode e panini. La placida teoria rivoluzionaria che Jinjur espone a Tip, il ragazzetto protagonista di questa storia, è uno spiazzante andirivieni di luoghi comuni, femministi e maschilisti al contempo.
Il colpo d’occhio delle amazzoni, colorate e armate di ferri da calza infilati nelle acconciature e sedute sul prato del loro raduno di guerra come a uno stravagante pic-nic, è un’immagine davvero seducente. Quando Jinjur si arrampica sull’albero da cui terrà il suo discorso motivazionale, per un attimo potrebbe perfino riaccendere alla causa femminista il cuore del lettore:

Amiche, cittadine, ragazze! – disse. – Stiamo per accingerci alla Grande Ribellione contro gli uomini di Oz! Marceremo alla conquista della Città di Smeraldo per detronizzare il Re Spaventapasseri [… ] e prender potere sui nostri oppressori d’un tempo. – Urrà! – dissero quelle tra loro che avevano ascoltato.

Il buon Guardiano dei Cancelli del Regno accoglie da vero galantuomo le sgrammaticate invasore, che si presentano come “rivoltanti”, definizione alla quale l’ammirato custode, sensibile al fascino muliebre, non aderisce affatto. Quando poi le fanciulle brandiranno i loro ferri aguzzi intimandogli la resa, l’uomo le supplicherà sconsolato:

Tornate a casa dalla mamma, ragazze, mungete le mucche, fate il pane. Non sapete che è pericoloso conquistare una città?

Le ragazze naturalmente non lo ascoltano: assediano il Palazzo e conquistano indisturbate il Regno.
Il sentimento più notevole che le donne in rivolta suscitano negli uomini, subito dopo lo stupore, è la paura, anzi il terrore: i maschi temono quelle femmine scalmanate e fuggono a gambe levate per non doverle affrontare.
Ma, a guardar bene, la più “ferrea” di loro, Jinjur, è soltanto una bambina capricciosa che trascorre il tempo a mangiare caramelle e a scartare cioccolatini verdi, dondolandosi nell’amaca del suo giardino d’infanzia. In certo senso, sebbene insceni una specie di resistenza, è pronta fin dal principio a essere punita e a farsi rispedire dalla mamma. Non appena Glinda, la potente Maga, stabilirà che il momento è venuto, come una bimba che sa d’averla fatta grossa, se ne tornerà di buon grado dai genitori. Ritroveremo Jinjur solo alla fine del racconto: una ragazzina umile e dimessa, che di fiero conserva solo lo sguardo: tra la folla porge una tazza di latte a Ozma, Regina di Oz. Nel frattempo ha sposato un fattore e si occupa dell’azienda di famiglia. Ozma s’informa sul marito della ragazza: come mai non è con lei?

È a casa a curarsi un occhio nero, – rispose Jinjur tranquillamente. – Quello stupido insisteva a voler mungere la mucca rossa, mentre io volevo che mungesse quella bianca; ma la prossima volta ci penserà due volte, ne sono certa.

Il lupo perde il pelo ma non il vizio, sembra dirci Baum divertito, ma l’ironica, e in fondo amara, parabola femminista di Jinjur ci suggerisce anche un’altra possibilità. Il problema della piccola ribelle non era affatto quello d’esser donna, dopotutto anche Glinda, la Maga e Ozma, sovrana di Oz, sono donne e nessuno contesta il loro potere; la questione era ed è più semplicemente quella del buon governo, che ha a cuore gli altri, in opposizione al cattivo governo, che ha a cuore i vantaggi individuali. La ragione, cioè, che spinge Jinjur a voler essere regina poco ha a che fare con l’emancipazione e il femminismo, in fondo, ma è infantile, egoista e frivola. Ancor più, riguarda le due debolezze che a Oz in assoluto sono considerate un vizio capitale: l’egoismo e la vanità.

 

Glinda, la Grande Madre.

disegno di Mara Cerri

 

Alla fine del primo libro di Oz, che è anche quello più famoso, Dorothy, partito il Mago, non ha più alcuna speranza di ritrovare la via di casa. È a quel punto che interviene Glinda.

Glinda, la Maga buona, a Oz è la Buona Madre di tutti, declinazione possibile dell’archetipo della Grande Madre. Il Castello di Glinda, nella regione del Sud ha infatti struttura prevalentemente matriarcale. Viene descritto con dovizia di dettagli nella Principessa perduta di Oz. È di marmo e d’argento

e la Maga vi abita, attorniata da uno stuolo di splendide fanciulle, che vengono dalle quattro regioni della terra fatata e dalla magnifica Città di Smeraldo.

Alla fine del primo libro, dunque, quando Dorothy andrà a cercare Glinda, ultima speme, troverà ad attenderla, di fronte al castello, tre «ragazze, vestite con bellissime uniformi rosse ricamate d’oro» che l’annunciano alla loro signora e la preparano ritualmente al sacro incontro lavandola, pettinandola e vestendola. Glinda siede su un trono di rubini

e agli occhi della bambina era bellissima e giovane. Aveva capelli di un rosso profondo, che le scendevano sulle spalle in una cascata di piccoli ricci. La sua veste era bianco puro, ma gli occhi erano blu e la guardavano con dolcezza. – Cosa posso fare per te, bambina mia? – chiese la Strega.

Chi non desidererebbe incontrare un se stesso più grande, più saggio, più bello, con tutte le risposte che cercava? Ma gli specchi delle favole forniscono solo soluzioni magiche e non offrono alternative.

Le tue Scarpette d’Argento ti trasporteranno oltre il deserto, – disse Glinda. – Se solo tu avessi conosciuto il loro potere, saresti potuta ritornare dalla Zia Em anche il primo giorno che arrivasti in questo paese.

La Strega buona che Dorothy incontra quando ormai dispera nel ritorno, è una specie di specchio estremo nella storia, il più dolcemente misterioso. Quel che rivela è grande e spaventoso. Il passo lieve e triplice, tre colpi come un battito di ciglia, è un gesto elementare e compatto, ma anche inconoscibile: è dentro di noi, ma non riesce davvero ad appartenerci. Cos’è allora? È un gesto creativo? O solo magico? È una semplice soluzione narrativa? Nella “parabola eternamente femminina” di Oz, forse è proprio Glinda, dolce madre e misteriosa fanciulla, a suggerirci che l’uscita dal Regno è una cosa irrevocabile che mette in crisi la nostra stessa visione del mondo con le sue più contraddittorie e potenti immagini.

 

 

 

Intervista a Maurizio Rippa

Attore sensibile e armonioso cantante, Maurizio Rippa dà vita in Piccoli Funerali – in scena al Teatro Socjale di Piangipane sabato 13 novembre alle 21 – a una partitura drammaturgica e musicale dedicata a coloro che ci hanno lasciato. È un atto d’amore, un dono, un saluto; un momento intimo e personale che trova forza nella musica. È uno spettacolo che – in dodici movimenti – si fa strumento di memoria affettiva e di elaborazione del lutto, creando uno spazio poetico e sottile per il tema della morte in una società che ne esercita la rimozione. Ogni brano – da “Love me tender” di Elvis Presley a “Moon river” di Johnny Mercer e Henry Mancini, da “In the end” di Scott Matthew al traditional “Oh Danny boy” – è un gesto che riporta a una memoria. Ogni funerale è raccontato da di chi se ne va e attraversa una vita appena vissuta. Piccoli Funerali è uno spettacolo commovente e dolcissimo capace di accogliere il dolore e trasformarlo in rinascita. Rippa ha avuto una carriera molto particolare, tra musica e teatro, e ha lavorato, tra gli altri, con Carmelo Bene, Armando Punzo, Antonio Latella, Roberto De Simone, Vincenzo Pirrotta e cantato con direttori del calibro di Alan Curtis e René Clemencic. Piccoli Funerali ha vinto nel 2019 la VI edizione de “I Teatri del Sacro” di Ascoli Piceno.

Rippa, il suo metodo per eliminare la paura e l’ansia nell’esibirsi in pubblico, ossia dedicare ciò che fa sul palco a qualcuno, sembra, a posteriori, una sorta di “uovo di Colombo”. Come si è accorto che la dedica ha un potere catartico enorme?

«Ho iniziato dalla seconda replica del mio primo spettacolo (credo nell’86) a dedicare il mio lavoro sul palco a qualcuno. Devo ammettere che all’inizio per me era solo un escamotage per superare l’ansia di prestazione, poi una sorta di rito scaramantico, poi ho sentito che questa era una vera necessità, l’ingrediente fondamentale non per fare una buona performance, ma per sentire che il mio lavoro avesse sempre come motore principale l’affetto, e non una semplice esibizione di un mio presunto talento. Negli anni ho capito che ogni “performer” si esibisce con motivazioni e modi diversi: chi per dimostrare le proprie abilità, chi per egocentrismo, chi per sentirsi amato, chi per un “fuoco sacro”, chi per sfuggire alla realtà. Per quel che mi riguarda ho capito quasi subito che soffrivo molto a esibirmi davanti a un pubblico “generico”, inteso come insieme indistinto di persone che mi osservavano fare cose. Lo trovavo estremamente egoistico da parte mia, e soprattutto mi facevo sempre la stessa domanda: ma perché tutte queste persone dovrebbero stare qui ferme e zitte ad ascoltare e vedere me? Trovo molto più onesto per me, forse banalmente, esibire quello che è il risultato di prove, esercizio, imposizioni registiche, paure e gioie dirigendo il mio pensiero e affetto verso qualcuno, e “offrire” questo al pubblico, quasi come una confidenza, come quando si confessa a un amico che ci siamo innamorati. Sono cose non facilissime per me da spiegare razionalmente, ma credo che abbiano a che fare con l’intimità tra me le persone presenti».

E, a maggior ragione in uno spettacolo come Piccoli Funerali, vien da pensare che il dedicare il lavoro a qualcuno si sia trasformato in una grande forza lirica e creatrice, quasi un elemento drammaturgico…

«È stato come mettere le carte in tavola, svelare il trucco di un gioco di prestigio, in maniera talmente semplice che credo possa anche spiazzare. Ho capito subito che se volevo fare un lavoro del genere avrei dovuto essere chiaro dall’inizio, spiegare cose avrei voluto fare (che fin dalle prime lezioni di teatro ti dicono tutti che non va mai fatto). Per me rivelare la mia modalità di esibirmi è come se mi denudassi davanti al pubblico, per questo direi che la dedica è forse l’unico elemento drammaturgico».

Anche le canzoni che accompagnano ogni episodio dello spettacolo creano quasi una narrazione a sé. È stato difficile arrivare alla loro scelta?

«In realtà sono canzoni che mi sono venuto in mente già mentre scrivevo il testo, quasi come colonna sonora, e la cosa in comune di tutte le canzoni è che volevo che fossero in un’altra lingua, per non aggiungere testo al testo parlato. Il fatto che io parli malissimo lingue straniere mi fa vivere le parole delle canzoni più come suono che come significato. Per me Piccoli Funerali ha come protagonisti delle persone che si raccontano accompagnati da suoni, e ho la fortuna di essere accompagnato da Amedeo Monda, che è un musicista molto sensibile, capace di ascoltare e assecondare tutte variazione che il mio stato emotivo della sera gli propone».

Cosa ha rappresentato Piccoli Funerali per la sua vita artistica? Penso anche all’intimissimo contatto con il pubblico prima dell’ultima canzone…

«In generale sono terrorizzato dal “pubblico”, inteso come insieme di persone indistinte. Soprattutto guardare i visi. Nella maggior parte degli spettacoli le luci creano una barriera che non ti permette di vedere il pubblico; non lo vedi ma sai che c’è. In Piccoli Funerali trovo fondamentale guardare le persone, vedere gli sguardi, guardarle negli occhi, è una cosa che mi terrorizza ma la trovo necessaria, è una questione di onestà. In qualche modo penso che potrebbe essere il mio ultimo spettacolo, dove lo stare in scena è una dedica a ogni singola persona presente. Per me rappresenta il mio modo di espormi in tutta la mia fragilità e imperfezione. L’ultima canzone e quello che accade prima sono tra le cose più intime ed emotivamente forti che ho mai provato in scena. Come se ogni persona presente venisse a darmi un bacio».

Ci sono differenze tra il porsi sulla scena per uno spettacolo teatrale e un concerto?

«È una domanda che meriterebbe una risposta lunghissima. Il mio primo testo (con un moto di orgoglio e narcisismo dico che ho vinto una menzione speciale alla prima edizione del premio Dante Cappelletti) si chiamava “Nella musica c’è tutto, meglio stare fermi”, dove mi esibivo in un vero concerto ma tra una canzone e un’altra dicevo ad alta voce tutti i pensieri, i dubbi, le paure di un cantante durante un concerto. Le differenze fondamentali sono per lo più fisiche: un attore sa non solo cosa dire ma anche come deve muoversi, fosse anche come imposizione registica. Il cantante in genere sa come cantare, ma il più delle volte si barcamena per gestire piedi, mani, corpo, attingendo spesso a convenzioni e stereotipi. Direi, per banalizzare, che recitare è molto corporeo, cantare è molto etereo. Essendo sia attore che cantante spesso dico che quando canto penso da attore, e quando recito penso da cantante, che potrebbe sembrare una cosa fantastica, ma in realtà è solo un modo mio per mettermi a disagio, perché credo che la comodità non si adatti al palco e perché credo di essere bravissimo a complicarmi la vita».

Intervista di Alessandro Fogli.

La mappa del cuore

Ha fatto scuola questa corrispondenza fra una femminista come Lea Melandri e le sue lettrici e i suoi lettori sulle pagine di Ragazza In. Uno spazio di reciproca interpretazione, un dialogo bizzarro e profondo che rivela l’universalità di interrogativi, istanze, desideri che appartengono a tutte le giovani persone alle prese con le grandi sfide del crescere e del comprendere. Una selezione degli articoli raccolti in quella rubrica sono stati scelti e pubblicati in un volume, riproposto con una nuova introduzione dell’autrice. L’attualità di questo libro è stata messa in evidenza anche nello spettacolo che ne hanno tratto Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi La mappa del cuore di Lea Melandri.

Pubblichiamo qui di seguito l’introduzione di Lea Melandri a La mappa del cuore. 
Lettere di adolescenti a una femminista. (Enciclopedia delle Donne, 2021)

La ristampa di un libro a cui si è particolarmente affezionati fa sempre piacere, soprattutto se è legato a un’esperienza e a un passaggio significativo della propria storia. Tale è stata la rubrica sul settimanale Ragazza In – Inquietudini -, a cui sono approdata, con sorpresa e incredulità, grazie all’invito di una coppia di amici, Sandra Novelli e Daniele Ionio, nel momento in cui mi lasciavo alle spalle il decennio degli anni Settanta, il movimento non autoritario nella scuola, la rivista L’erba voglio e il femminismo, per un viaggio analitico che sarebbe durato a lungo e che avrebbe portato il mio pensiero e la mia scrittura vicino a ciò che resta “impresentabile” del corpo e delle passioni che l’attraversano. La rottura improvvisa di una relazione amorosa aveva già aperto la strada a ferite ben più profonde, tanto dolorose da non poter diventare neppure ricordi, e le lettere delle ragazze arrivavano come inattese compagne di un viaggio che avremmo percorso insieme, tra sogno e lucidità di analisi. Non volendo usare i luoghi comuni della consolazione, e tanto meno la dogmaticità del linguaggio professionale, interpretativo, non mi restava che affidarmi, per le risposte, alla parentela che sentivo con quell’esploratore di paesaggi interni che è l’adolescente. Non c’è voluto molto per capire che, nell’angolo della posta, arrivava quella che Sibilla Aleramo, scoperta tardivamente come coscienza femminile anticipatrice attraverso i suoi Diari, definiva «una segreta, sotterranea vita», intraducibile persino in poesia.

Occorreva un’altra lingua per dare voce a esperienze, le più universali dell’umano, come l’innamoramento, gli abbandoni, la solitudine, lasciate dalla vita sociale in una sorta di esilio, costrette a muoversi tra una “stanza” tenuta gelosamente “privata” e la pagina della “confidenza” di un giornale. Per addentrarsi nel territorio inesplorato che conserva immutati nel tempo i sogni, i desideri, le paure che si accompagnano all’ingresso nella vita sociale, anche la parola doveva assottigliarsi, non temere di lasciarsi incantare da figure indeterminate, riconoscibili solo nella “mappa” del sentimento umano. È accaduto cosi, quasi per magia, che ogni rubrica si aprisse con i nomi di lettrici trasognate, sospese tra il mito e il disincanto di un mondo respingente come una “macchina di ferro”: “Lacrima nera”, “Leonessa ’66”, “Inquietudine ’71”, “Lacrima ’68”, “Un granello di polvere sull’argenteria”, “Illusione ’67”, “Goccia”. “Angelo Bianco”, “Una foglia di autunno pronta a cadere”.

Incurante delle domande, per le quali non c’era risposta – «Ho visto un ragazzo, mi ha guardato. Secondo te mi ama?» – ho creduto di potermi avvicinare a loro sottolineando e trascrivendo frammenti, andando fino a perdermi in un corpo a corpo con un materiale che mi toccava profondamente, per poi staccarmi con la scrittura e tracciare un sottile confine tra me e loro, tra il sogno d’amore che ci accomunava, al di là della distanza di età, e la consapevolezza con cui la mia appassionata partecipazione al movimento delle donne mi aveva insegnato a interrogarlo.

Ho scoperto a poco a poco il rapporto inconfondibile che si stabilisce tra la lettrice e la figura che si profila dietro le risposte, un rapporto in cui si mescolano fedeltà, attese, idealizzazione, come nelle relazioni famigliari e amorose, ma dove è anche possibile accorgersi con sorpresa che la stanza, da cui parte la lettera “non è vuota”: «Nella stanza c’è il profumo del passato, della solitudine, del dolore, della speranza. Apro finalmente quella finestra e un fascio di luce la illumina: non c’è nulla di anormale. Ora posso accorgermi che non è vuota».

Una conferma analoga della sintonia che si era venuta creando lungo il solco leggero degli stralci delle loro lettere, amplificati dalla mia scrittura enigmatica, riflessiva e poetante, la ebbi poco oltre nel tempo: «Non ti chiedo frasi del tipo “hai molto bisogno di affetto, devi farti coraggio”, “L’amore è grande, quando lo incontrerai, sarai felice”. Queste sono le cose ovvie che ho già sentito mille volte. Se me le dici anche tu sono al punto di partenza. Da te aspetto una risposta che venga dal tuo cuore e che mi faccia sentire parte di un mondo che non ho inventato io». In breve tempo, i frammenti accuratamente scelti per tema, hanno preso, come mi auguravo, il centro della scena, hanno cominciato a dialogare tra loro, non senza aver fatto prima un affettuoso saluto alla donna che, pur non rispondendo alle domande e limitandosi ad analisi per loro incomprensibili, sembrava aver accolto il loro bisogno di ascoltare e essere ascoltate nei loro «sogni lunghi e romantici», così come nelle loro tristezze: «Dolcissima Lea, siamo due ragazze che desiderano ardentemente rispondere alla lettera di Gloria».

A rendere cosi appassionante l’insolita collaborazione dopo un percorso decennale di lotte femministe, ho motivo di penare che sia stata una “inquietudine” che veniva da lontano, dai vent’anni passati in una famiglia contadina, dove fatica, pover; e violenza sulle donne si confondevano, agli occhi di una figlia con la sessualità, gli affetti, e le cure, dall’esperienza traumatica di un primo tema in quarta ginnasio in cui avevo tentato di dare parola a un vissuto doloroso e che era stato giudicata “scritto benissimo, ma fuori tema”. Fuori e intraducibile nelle lingue colte rimaneva gran parte della mia condizione sociale, dell’appartenenza a un sesso a cui per millenni era stato negato il beneficio della cultura. Considero tuttora un privilegio aver incontrato nel mio arrivo a Milano, in fuga dalla provincia, movimenti per i quali il “fuori tema” era considerato ” Il tema” la vita riscoperta come riserva inesplorata di saperi, di “storie non registrate”, per citare Virginia Woolf. Il femminismo molto aveva detto del corpo, della sessualità, della maternità, dei legami famigliari, del maschile e del femminile come costruzioni del sesso vincente, ma era rimasto in ombra, forse per la sua ambigua confusione con rapporti di potere, l’amore come sogno di appartenenza intima a un altro essere, fusione armoniosa di natura diverse. Era così che lo avevo sentito tornare, esaltante e doloroso, all’inizio degli anni Ottanta e, paradossalmente, non era nel movimento delle donne che potevo farne parola ma con le tante “ragazze In” che mi scrivevano, con quella sintonia che hanno le esperienze più universali dell’umano quando escono dal confinamento nel privato, «Sento il bisogno di avere un ragazzo accanto, una persona che mi ami e mi conforti. Vorrei avere qualcuno che sia sempre li quando lo cerco, a cui aggrapparmi e per cui vivere, uno che mi porti via da dove mi trovo, che mi conduca lontano dove poter dimenticare e rifarmi una vita. Ma sento che ne ho troppo bisogno, troppa ansia di possederlo in modo assoluto».

Se la mia rubrica non fosse stata chiusa improvvisamente, come altre della rivista, per un cambiamento della redazione, forse avrei continuato ancora a passare i miei fine settimana ad annaspare tra la valanga delle buste istoriate che si ammucchiavano sul mio letto e che mi strappavano a volte una lacrima: «Corri postino, non ti fermare, che la mia Lea non può aspettare». A distanza di tanti anni, non mi ricordavo più di quanto fossero “scritte” quelle buste colorate, dai loro “Help me?’, dalle mie sottolineature e notazioni. A farmene tornare memoria e commossa riscoperta sono stati Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi del gruppo teatrale di Bologna AtelierSi, quando sono venuti a propormi l’idea di fare uno spettacolo con le lettere e le mie risposte: parole che tornavano ad essere voce, corpo, per un dialogo tra “generazioni e generi”, ripresa di quella che era stata l’intuizione più radicale del femminismo, il “partire da sé”, la restituzione alla storia, alla cultura e alla politica, di una materia di vita consegnata inspiegabilmente alla “natura”. «Un tesoro – ha detto Andrea intervistato da Anna Stefi per Doppiozero – abbiamo tirato giù dal soppalco questo pacco contenente tutta la corrispondenza e, rovesciandola al centro della stanza, abbiamo cominciato a guardarla insieme». Nonostante la pubblicazione di una raccolta di rubriche nel libro La mappa del cuore per l’editore Rubbettino, incontrato in una felice vacanza in Sila, ospite della mia amica Renate Siebert, non avevo gettato nulla, né le riviste, che compravo regolarmente ogni martedì, sempre stupita di quanto poco fossero comprensibili le mie risposte, né le lettere e le buste che le contenevano. Se il libro può tornare ad essere letto è merito loro e di Rossana Di Fazio e Margherita Marcheselli che si sono offerte di accoglierlo nella loro casa editrice: enciclopediadelledonne.itRingraziamento e gratitudine.

Lea Melandri, 25 febbraio 2021

L’oceano in una bacinella

Da bambino amavo, durante i mesi estivi, giocare spesso nel cortile di casa all’ombra di un piccolo melograno. Riempivo di acqua una grande bacinella di plastica azzurra, di quelle che si usavano per lavare i panni, e quella subito diventava il mio oceano. E in quell’oceano animavo avventure fantastiche, facendo coesistere personaggi e storie diverse legate ai giocattoli che in quel momento occupavano la mia immaginazione. Ricordo un sottomarino nero, un grande squalo bianco (gli squali sono stati a lungo una mia grande passione, tanto da voler diventare, da grande, un biologo marino) e un demone dalla pelle bluastra con un teschio al posto del viso. Figure che formavano la mia personale cosmogonia di un universo acquatico.

Fotografia di Claire Pasquier

Il mio primissimo esperimento teatrale in solitaria – allestito un’unica volta, nel 2006, nell’abside del Teatro Rasi, di fronte al resto dei miei compagni del Teatro delle Albe – s’intitolava Il mondo dei squali, come recitava il titolo sgrammaticato su un poster pubblicitario di un circo acquatico, usato come unico elemento scenografico. Ero partito da La predica agli squali, un frammento di dialogo estrapolato dal capitolo LXIV di Moby Dick intitolato La cena di Stubb e, su suggerimento di Marco Martinelli, avevo provato a costruirgli intorno una serie di scene che avevano come unico fil rouge, appunto, gli squali.

Moby Dick è da sempre, da quando l’ho letto per la prima volta poco più che ventenne, il mio livre de chevet. Il più grande libro di mare mai scritto, forse il più bel romanzo americano, un caposaldo della cultura occidentale. Un libro sulla rovina, sul tramonto della nostra società, canto straziante e psicotico, mistico e delirante. Leggerlo provoca lo stesso effetto che deve aver sperimentato chi ha potuto ascoltare Jimi Hendrix suonare dal vivo, a Woodstock, The Star Spangled Banner nel 1969. L’ho letto oramai diverse volte, ci torno spesso e, come un libro magico, aprendolo a caso ottengo indicazioni sul futuro. Credo che non esaurirò mai il mio rapporto con questo libro, continuerò a lavorarci per tutta la vita, come una fonte di inesauribile sapienza.

Questo lavoro, però, è nato da una precisa richiesta: Giacomo Piermatti, sopraffino contrabbassista allievo di Daniele Roccato e di Stefano Scodanibbio, dopo aver collaborato con noi Albe in Purgatorio, chiamata pubblica per la “Divina Commedia” di Dante Alighieri, mi ha proposto un percorso di lavoro a due che, dopo qualche esperimento, si è concretizzato attorno a una prima selezione di brani tratti proprio da Moby Dick. Data l’impronta musicale e sonora del lavoro di voce e contrabbasso si è unito alla squadra, con un contributo prezioso e fondamentale, Andrea Veneri, giovanissimo regista del suono allievo di Luigi Ceccarelli (storico collaboratore del Teatro delle Albe), anche lui conosciuto e apprezzato durante il nostro pluriennale lavoro su Dante.

Fotografia di Marco Parollo

Il Pequod, la baleniera capitanata da Achab, è in Melville un affollarsi di voci e di razze, una vera nave americana, una nave di folli agli ordini di un folle capitano in una folle caccia a un fantasma. E in questa nostra sinfonia, il contrabbasso – amplificato in modo da creare piani sonori ben differenziati e con l’aggiunta di elaborazioni basate sul ritardo e la moltiplicazione del suono che ne modificano e incrementano l’espressività – diventa la voce dell’intero Pequod, pervaso dagli scricchiolii del ponte sotto i piedi dell’equipaggio come dal furioso sbattere di code degli squali affamati contro la prua. Una sinfonia in cui la musica, creando uno spazio sia emotivo che fisico, tenta di manifestare tutto quello che le parole lasciano solo intuire, mentre le variazioni timbriche della voce, che si succedono durante la performance, vengono amplificate attraverso l’uso di riverberazioni digitali che ne variano la spazialità, l’enfasi o la crudezza.

Il tempo della scena è misterioso: siamo tornati indietro o siamo all’inizio di una nuova umanità? E altrettanto misterioso è lo spazio scenico: relitto adagiato sul fondo dell’oceano o magari cimitero di navi, oppure, ancora, antro oscuro (il ventre della balena, come Geppetto e Pinocchio? O forse solo un teatro?) in cui, come totem, sorgono frammenti, lastre metalliche piegate, corrose, consumate dal tempo. Su queste, la mano del giovane artista ravennate Bacco Artolini ha disegnato segni antichi, geroglifici, rappresentazioni di antiche o nuove divinità.

I capolavori della letteratura formano sempre una specie di lingua straniera nella lingua in cui sono scritti. Penso a Foglie d’erba di Whitman o a Pinocchio di Collodi. Melville ne inventa una – la “lingua della Balena”, la chiama Deleuze – che stravolge l’inglese. Lingua inumana o sovrumana. Da qui, la scelta di ricorrere alla traduzione di Cesare Pavese. Non solo perché fu il primo traduttore del romanzo in Italia o per l’esperienza d’abisso che l’autore de Il mestiere di vivere si portava addosso, ma soprattutto per la musica della sua lingua non databile, sospesa nel tempo come può esserlo la grande poesia. Un italiano che non è più solo italiano ma lingua originale e originaria proprio come quella di Melville. Una lingua-mondo, una sorta di Bibbia segreta e magica.

Nelle prime pagine del suo capolavoro, Melville ci consegna la chiave d’oro per leggere il romanzo: “E ancora più profondo di significato è quel racconto di Narciso che, non potendo stringere l’immagine tormentosa e soave che vedeva nella fonte, vi si tuffò e annegò. Ma quella stessa immagine noi la vediamo in tutti i fiumi e negli oceani. Essa è l’immagine dell’inafferrabile fantasma della vita; e questo è la chiave di tutto”.

Fotografia di Marco Parollo

Mito tragico, quello di Narciso, che parla della ricerca del “chi siamo?” e del “chi sono io?”. Una ricerca che, nel mito, ha come soluzione la morte, l’andare letteralmente a fondo. Fare esperienza dell’abisso, esperienza fisica del fondo oscuro che abita in ognuno di noi. Essere ammaliati dalla musica incantatoria che proviene dal fondo del burrone, camminarci accanto, rischiando più volte di scivolare e poi precipitare, inabissarsi definitivamente, non vedere più la luce e la possibilità di risalire.

Secondo i miti orfici, Dioniso fu ucciso dai Titani mentre si guardava allo specchio.

Specchiandoti crei il mondo, ma la creazione e la conoscenza di questo mondo non rispondono alla realtà. La fonte d’acqua agisce come uno specchio, mettendo insieme, dunque, superficie riflettente e profondità oscura.

Così, nel gioco del Teatro, una bacinella può per incanto tornare a trasformarsi in uno specchio d’acqua che raccoglie in sé tutti gli oceani del mondo.

Roberto Magnani

La Divina Commedia a Pikine

A seguito della traduzione in lingua wolof del Canto I della Divina Commedia, realizzata dal poeta Pap Khouma (e contenuta nel libro Di soglia in soglia, curato da Tahar Lamri, Kanaga Edizioni), il Teatro delle Albe, in occasione della 21ª “Settimana della lingua italiana nel mondo”, ha lavorato con un gruppo di attori di Pikine – un quartiere nelle banlieue di Dakar –, grazie alla collaborazione con l’attore senegalese Laity Fall e allo spazio da lui diretto. Il percorso con trenta giovani attrici e attori ha portato, il 23 ottobre, a un esito finale attraverso le cantiche della Commedia, un interrogarsi e una messa in vita del poema di Dante nella periferia di Dakar.

Dopo che Pap Khouma – scrittore senegalese residente in Italia da oltre 30 anni – ha tradotto il Canto I della Divina Commedia in wolof, la lingua più diffusa in Senegal, è stato un passaggio naturale per il Teatro delle Albe, da oltre trent’anni impegnato in Senegal (terra del compianto attore e regista Mandiaye N’Diaye), tornare a Dakar per lavorare su Dante. E dunque, in occasione della 21ª “Settimana della lingua italiana nel mondo”, l’attore delle Albe e condirettore di Ravenna Teatro Alessandro Argnani è andato nel paese africano per un laboratorio con trenta giovani attrici e attori di Pikine – quartiere nella banlieue di Dakar –, grazie alla collaborazione con l’attore senegalese Laity Fall, al Complexe Culturel Léopold Sédar Senghor di Pikine da lui diretto e a KËR Théâtre Mandiaye N’diaye, partner ormai imprescindibile nei progetti del Teatro delle Albe in Senegal.

Sabato 23 ottobre al Complexe Culturel L.S.S. di Pikine si è tenuto l’esito finale di questo breve ma intenso percorso artistico, seguito anche da Graziano Graziani, documentarista e giornalista di Rai Radio 3, che durante tutta la fase di creazione ha realizzato un podcast radiofonico.

Venerdì 22 ottobre, invece, il Canto I in wolof è stato letto all’Istituto Italiano di Cultura di Dakar di fronte all’ambasciatore italiano in Senegal, Giovanni Umberto De Vito, alle istituzioni dakariote e a un pubblico da tutto esaurito, in una serata di enorme valenza simbolica.

«Un progetto come questo ci permette di raccontare in maniera innovativa la forza e la vitalità delle relazioni culturali fra l’Italia e il Senegal – spiega Serena Cinquegrana (neo-direttrice IIC Dakar) –. Partendo dalla traduzione in wolof del Canto I della Divina Commedia, è nato un percorso fatto di tante tappe importanti per celebrare l’anno di Dante in Senegal: la presentazione e lettura dal vivo a Ravenna e poi a Dakar, il laboratorio teatrale a Pikine con trenta attori della banlieu e la mostra originale con le opere di sette artisti senegalesi che inaugureremo qui all’Istituto Italiano di Cultura di Dakar a dicembre nell’ambito di Partcours».

https://www.youtube.com/watch?v=lNQ05Id33_U

All’ICC di Dakar è stata poi donata una fotografia della prima lettura del Canto I, avvenuta a Ravenna di fronte alla tomba di Dante il 30 luglio scorso e realizzata da Nias Zavatta. La foto è stata apposta all’ingresso dell’Istituto in segno di gemellaggio con Ravenna e le Albe.

 

Marco Martinelli premiato in Francia

Marco Martinelli riceve a Parigi il Premio dell’Associazione nazionale dei critici francesi per la miglior pubblicazione sul Teatro 2021

Lunedì 11 ottobre l’Associazione nazionale dei critici francesi ha scelto come “Miglior libro dell’anno” Aristophane dans les banlieues di Marco Martinelli (éd. Actes Sud, traduzione e cura di Laurence Van Goethem). Il volume è la versione in francese di Aristofane a Scampia, già uscito con Ponte alle Grazie nel 2016. Il giorno dopo, 12 ottobre, Martinelli sarà ospite alle 18.30 alla Maison de l’Italie per l’incontro Aristophane et le théâtre de la non-école (voluto e organizzato da la Maison de l’Italie insieme all’Istituto Italiano di Cultura di Parigi), in cui dialogherà con Marco Consolini (Université Sorbonne Nouvelle-Paris 3) e Paolo Grossi (direttore dei Cahiers de l’Hôtel de Galliffet). 

Marco Martinelli durante la premiazione

 

Nella mattinata di oggi, lunedì 11 ottobre, si è svolta al Théâtre National de la Danse di Chaillot a Parigi, uno dei quattro Teatri Nazionali della capitale, la cerimonia dei prestigiosi premi 2020\21 (Palmarès des Prix de la critique de théâtre et de danse) – edizione numero 58 – che segnala gli spettacoli e le personalità artistiche emersi nella stagione teatrale in Francia.

Ed è a Marco Martinelli – drammaturgo, regista e fondatore del Teatro delle Albe – che è stato assegnato il premio “Miglior libro dell’anno” per Aristophane dans les banlieues (éd. Actes Sud, traduzione e cura di Laurence Van Goethem), riconoscimento che in passato è andato a importanti figure della scena teatrale internazionale: dallo studioso Georges Banu ai registi Claude Regy e Thomas Ostermeyer, fino al drammaturgo Jean-Luc Lagarce.

La copertina di Aristophane dans les banlieues

 

«Desidero ringraziare il Sindacato dei critici francesi – ha detto Martinelli alla consegna del premio – che mi onora con questo premio prestigioso, e ringrazio la traduttrice Laurence Van Goethem, che da anni segue il mio lavoro e traduce i miei testi con una passione e una cura che mi fanno felice, e ringrazio Claire David e Georges Banu che per Actes sud hanno scommesso sull’ARISTOFANE e lo hanno fatto arrivare in Francia. E poi vorrei dedicare questo premio ai tanti adolescenti che, nel mondo, stanno gridando il loro diritto alla vita: e lo gridano anche quando li vediamo trincerarsi dietro la timidezza e il silenzio. Ascoltarli veramente non è solo è un dovere, per noi adulti, può diventare una fonte di grande felicità nello scambio tra generazioni: almeno, così è stato per me in tutti questi anni, un modo di far vivere la scena all’insegna di quella “parola presa a prestito dai Greci”, come la chiamava il giovane Friederich Nietzsche: Dioniso, il dio dei tamburi e dell’ebbrezza, del turbamento vitale. Del teatro».

Dal documento di lancio dei premi si legge che «più che mai, in un anno così particolare, la critica ha scelto volutamente titoli e figure di resistenza, per donare un messaggio forte e empatico allo spettacolo dal vivo rimasto fermo a causa della Pandemia e delle difficoltà scaturite dalla chiusura dei teatri».

Tutti i premiati del Palmarès des Prix de la critique de théâtre et de danse

 

Aristofane a Scampia. Come far amare i classici agli adolescenti con la non-scuola è una pubblicazione del 2016, in cui Martinelli racconta, come in un romanzo, il metodo della non-scuola e le avventure di questa vitale pedagogia in giro per il mondo, da Ravenna a Dakar, da Scampia a New York.

Marco Martinelli, autore, drammaturgo e regista, è fondatore del Teatro delle Albe (1983). Ha firmato oltre cinquanta regie e I suoi testi sono tradotti pubblicati e messi in scena in dieci lingue e selezionati da Fabulamundi e IPP Italian & American. Ha ricevuto riconoscimenti tra i quali sette Premi Ubu, Premio Hystrio, Golden Laurel. Martinelli è fondatore della non-scuola, pratica teatral-pedagogica con gli adolescenti diventata punto di riferimento in Italia e in diverse parti del mondo. Nel 2017 ha esordito anche come regista cinematografico, realizzando da allora quattro lungometraggi.

Nasce MALAGOLA – Scuola di vocalità e Centro studi sulla voce

Presentato a Bologna il progetto Malagola

Ideatrice e direttrice è Ermanna Montanari. Vicedirettore è Enrico Pitozzi. Dal 18 ottobre 2021 al 14 aprile 2022 avrà luogo il Corso di alta formazione Pratiche di creazione vocale e sonora, con incontri, seminari e un primo nucleo degli archivi sonori. Un UNICUM in Italia con un respiro internazionale, a partire da alcune presenze all’interno del Corpus docenti

Poco più di un anno fa, nel febbraio 2020, Ermanna Montanari inizia a coltivare le scintille di un progetto dedicato alla radice più profonda della sua ricerca artistica di attrice\autrice e concepisce il “Piccolo manifesto della Scuola di vocalità”. Dai nove punti in cui si articola lo scritto iniziava l’avventura creativa e formativa del futuro prossimo di Malagolaun progetto di scuola e centro studi sulla voce ideato e voluto fortemente da Ermanna Montanari, co-fondatrice e direzione artistica del Teatro delle Albe, attrice iconica e pluripremiata per la sua ricerca attoriale e sulle pratiche legate alla vocalità e al rapporto inscindibile con la creazione musicale e sonora.

Al fianco di Ermanna Montanari, in qualità di vicedirettore, lo studioso e docente dell’Alma Mater Studiorum Università di Bologna Enrico Pitozzi, che, da tempo, ha intrecciato un dialogo con Montanari intorno ai temi della voce e del suono. Tale dialogo ha dato come frutti due pubblicazioni: Acusma (Quodlibet, 2017) e Cellula (scritto con Ermanna Montanari, Quodlibet, 2021).

Oltre alla città di Ravenna, in cui il progetto individuato insieme al Comune ha sede tra il Teatro Rasi e gli spazi di Palazzo Malagola, che hanno segnato questo inizio, obiettivo e volontà di questo primo anno di percorso sono quelli di intrecciare relazioni sul territorio regionale, nazionale ed internazionale, valorizzando la relazione con le Istituzioni e gli Enti territoriali a partire da ERT /Teatro Nazionale e con il suo direttore Valter Malosti, in una prospettiva di condivisione, collaborazione e costruzione progettuale. Un gesto quello del direttore Malosti, in continuità con un dialogo acceso e duraturo che esiste da anni con Ermanna Montanari e il Teatro delle Albe, una risposta a intraprendere un’avventura che è anche un avvio a confrontarsi e scoprire sempre più poetiche condivise.

 

Malagola si va connotando, già da questo primo anno, come un luogo qualificato da un respiro internazionale e aperto al territorio, come centro studi e accoglienza di esperienze artistiche. Un archivio vivente e in continuità con la storia e il prossimo futuro in un duplice percorso: da una parte spazio di archivi sonori e audiovisivi dedicati alla scena contemporanea, intrecciati a doppio filo alla scuola di vocalità; dall’altra è luogo di pratiche condivise, che erediteranno l’energia delle centinaia di cittadini che hanno dato vita, negli ultimi anni, all’esperienza del Cantiere Dante.

Una scuola in cui, per usare le parole di Montanari, «si pratica una disciplina gioiosa e esigentissima attraverso l’avventura della propria voce e del proprio corpo, dove la voce è il corpo, dove ognuno è pianeta sonoro e radice della sostanza, che prenderà forma nel tempo che ci daremo. Un luogo plurale, abitato dalla città, in opera con la città, e al contempo separato, concepito in un’ottica di corresponsabilità collettiva, con la consapevolezza che ogni singola nostra cellula ha una storia, ed è depositaria di una memoria non solo sensoriale, ma immaginifica e poetica».

Una scuola come archivio dell’ascolto che guarda a riferimenti di figure che hanno lasciato un’orma indelebile: «Antonin Artaud, Laurie Anderson, Meredith Monk, Carmelo Bene, Maria Callas – leggiamo sempre nel “manifesto” della Scuola a firma di Ermanna Montanari – il vento, le rose, l’acqua, le preghiere, la gente, Demetrio Stratos, Leo de Berardinis, Perla Peragallo, Janis Joplin, e altri loro nostri compagni e compagne di via. E luogo di incontrollato sgorgare delle emozioni, urla echeggi soffi risa».

 

Al centro della Scuola di vocalità, il corso di Alta Formazione MALAGOLA Pratiche di creazione vocale e sonora (operazione approvata dalla Regione Emilia-Romagna con Delibera di GR n.401 del 29/03/2021, Rif.PA 2020-15422/RER e cofinanziata con risorse del Fondo sociale europeo P.O. 2014-2020 e della Regione Emilia-Romagna; operazione di cui Fondazione Simonini segue per Ravenna Teatro gli aspetti progettuali/gestionali), con inizio il prossimo ottobre e che fa parte delle attività di formazione teorico- pratiche avviate dal Centro di produzione e neo ente di formazione Teatro delle Albe/Ravenna Teatro.

Il corso, a frequentazione gratuita per gli artisti e i professionisti partecipanti, ha avuto 131 candidature per 15 posti disponibili. Nel gruppo di selezionati ci sono, come da obiettivi, figure che gravitano a diverso titolo nell’ambito della creazione e della comunicazione artistica – nello spettro ampio che va dal teatro (performer, attori, cantanti e/o strumentisti) alla produzione multimediale (radio, audioguide, audiolibri, ecc.).
Le lezioni iniziano ufficialmente lunedì 18 ottobre.

Molte sono le figure che andranno a comporre la costellazione del corpo docente, al confine tra territori artistici e ricerca, tra musica e teatro, creazione e attività formativa. Il modello di collaborazioni può prevedere anche residenze artistiche e, tra i nomi coinvolti – insieme a Montanari e Pitozzi – quelli di Meredith Monk, Mariangela Gualtieri, Moni Ovadia, Chiara Guidi, Francesca Proia, Roberto Latini, Mirella Mastronardi, Francesco Giomi, Luigi Ceccarelli, Diego Schiavo, Daniele Roccato, Alvin Curran. Presenze ospiti come Vinicio Capossela e anche foniatri come Franco Fussi e teorici del calibro di Piersandra Di Matteo, Valentina Valentini, Caterina Piccione e Bonnie Marranca, oltre a importanti esponenti del management delle arti performative, come Patrizia Cuoco e lo sfaff del Teatro delle Albe.

Sarà Silvia Pagliano ad assumere la direzione organizzativa del progetto, lavorando con la squadra organizzativa e tecnica del Teatro delle Albe/Ravenna Teatro.

MALAGOLA è segnato dal tratto del disegnatore Stefano Ricci, che ha composto il logo, i materiali ed è intervenuto su alcuni spazi del palazzo stesso, insieme al progetto poetico per i social di Malagola di Marco Sciotto, ricercatore dell’Ateneo di Catania-facoltà di Scienze Umanistiche.

 

Tra i partner del corso a livello regionale, nazionale e internazionale che aderiscono al progetto: Fondazione Ravenna Manifestazioni-Ravenna Festival, Santarcangelo dei Teatri-Santarcangelo Festival, Istituto Superiore di Studi Musicali G. Verdi, Associazione Culturale Masque Teatro, Pms Studio Music Label and Recording Studio, L’arboreto – Teatro Dimora Mondaino, Ater Fondazione, BH Studio, Fondazione Flaminia, Start Cinema, Istituzione Biblioteca Classense, Mar – Museo d’Arte della Città, Fondazione I Teatri, La Voce Artistica, Edison Studio Associazione Culturale, Italian and American Playwrights project-Umanism LLC- Martin E. Segal Theatre Center, The International Voices Project.

Il progetto MALAGOLA, come percorso cardine del Centro di produzione Teatro delle Albe/Ravenna Teatro, è sostenuto dal Comune di Ravenna dall’Assessorato alla Cultura e Paesaggio della Regione Emilia Romagna e dal Ministero della Cultura.

In questo suo primo anno è stato in grado di intercettare, insieme alle risorse del Centro di produzione, il contributo di € 72.052 dell’Assessorato alla Formazione della Regione Emilia Romagna-cofinanziato dal FSE e il contributo di 28.000 € di SCENA UNITA – per i lavoratori della Musica e dello Spettacolo, fondo privato gestito da Fondazione Cesvi – organizzazione umanitaria italiana laica e indipendente, fondata a Bergamo nel 1985 – in collaborazione con La Musica Che Gira e Music Innovation Hub.

MALAGOLA ha inoltre il supporto di GRUPPO BOERO attraverso il Brand ATTIVA dedciato ai professionisti dell’edilizia e il partner Tintored di Crespellano-Valsamoggia (BO).

Ermanna Montanari dall’8 all’11 ottobre è in scena nello storico spazio del Centro di Ricerca Musicale – Teatro San Leonardo con MADRE [di e con Ermanna Montanari, Stefano Ricci e Daniele Roccato; dal poemetto scenico di Marco Martinelli] nell’ambito di “Matria. immaginari della maternità contemporanea” a cura di ERT /Teatro Nazionale con la collaborazione di AngelicA | Centro di Ricerca Musicale e DAMSLab | La Soffitta, Università di Bologna.

 

Fotografie di Enrico Fedrigoli

Foto di copertina di Fabrizio Zani

Torna La Stagione dei Teatri. Trent’anni di Ravenna Teatro

Tante novità per i trent’anni di Ravenna Teatro: due stagioni parallele grazie alle collaborazioni con E Production (Fèsta) e Teatro Socjale di Piangipane (Al Socjale), la nascita di Malagola-Scuola di vocalità e Centro studi sulla voce, Storie di Ravenna e nuovo sito internet.

Riparte La Stagione dei Teatri con un programma ambizioso ma necessario, che punta sulla qualità delle proposte con uno sguardo sempre più allargato. Non si tratta solo di una ripartenza, bensì di un vero e proprio rilancio, con la necessità di ripensare una direzione, di rimarcare l’importanza di prendersi dei rischi. In questi due anni abbiamo riflettuto profondamente sulla necessità dell’arte teatrale, abbiamo tenuto aperto il teatro agli artisti (non agli spettatori, purtroppo), ospitando la loro ricerca. Da questo periodo di riflessione è scaturita Malagola, l’invenzione della fondatrice del Teatro delle Albe Ermanna Montanari (con il suo sapiente percorso di ricerca vocale e musicale), uno spazio per la ricerca, lo studio e la creazione che rappresenta un nuovo segno indispensabile per il nostro futuro.

È proprio con la nascita di questo Centro studi sulla voce che indichiamo la direzione che il nostro teatro seguirà in questa stagione e in quelle a venire, e su cui abbiamo costruito il programma che andiamo a presentare.

Malagola significa continuare a ospitare a Ravenna artisti/artefici che continuino a fare ricerca, significa un sostare, un essere presenti “qui e ora” che ribadisce l’importanza dell’artista, un investire sulle cose nascoste, sulla profondità, sullo scavo. 

Maestri come Mariangela Gualtieri, Meredith Monk, Moni Ovadia o Roberto Latini, (che vedremo nella Stagione di quest’anno) possono indicarci delle possibili traiettorie. Occorre scavare e arrivare ai nodi cruciali dell’arte teatrale, ed è da questo viaggio necessario – da sempre in dialogo incessante con l’Amministrazione comunale e la comunità degli spettatori – che Ravenna Teatro riapre e riparte. 

Ampio sarà l’excursus dei protagonisti della Stagione tra le drammaturgie, dal confronto di Carlo Cecchi con Eduardo De Filippo alla rilettura di Primo Levi a opera di Valter Malosti, dall’affondo ottocentesco di Elena Bucci e Marco Sgrosso al Teatro dell’Assurdo di Ionesco portato in scena da Valerio Binasco, Federica Fracassi e Michele Di Mauro, fino all’attualità del Teatro dell’Elfo con il romanzo di Mark Haddon.

Riprendendo una modalità a noi cara, saranno le collaborazioni e a dettare il passo delle attività 2021-22 di Ravenna Teatro, come quella con Fèsta, curata insieme a E Production, che ribadisce l’importanza delle Artificerie Almagià quale spazio di arte e cultura. Poi con il Teatro Socjale di Piangipane (luogo ultracentenario legato indissolubilmente al mondo della cooperazione), che ha dato vita alla rassegna Al Socjale. Senza dimenticare il fondamentale rapporto con il fotografo veronese Enrico Fedrigoli, autore delle immagini che connotano quest’anno la comunicazione visiva della Stagione dei Teatri. Immagini potenti, di occhi osservatori, che ci inducono a guardarci, anzi a ri-guardarci, sempre alla ricerca di bellezza.

Quest’anno così particolare per tutti, è per noi ancora più simbolico: 1991-2021. Sono trent’anni di Ravenna Teatro. Trent’anni di stagioni, collaborazioni, creazioni, pensieri e trent’anni che abitiamo uno spazio fondamentale per la nostra città, il Teatro Rasi. In questo momento di trasformazioni, anche il Rasi sta cambiando il suo aspetto. Sono iniziati i lavori di riqualificazione del Rasi, che lo renderanno ancora più bello e accogliente, uno spazio profondamente trasformato nella fruizione della sala, resa più moderna e pronta alle diverse esigenze artistiche. I lavori saranno ultimati all’inizio del 2022.

Alessandro Argnani e Marcella Nonni
direzione Ravenna Teatro

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Occhi

Le immagini che quest’anno accompagnano La Stagione dei Teatri e delle altre “ante”, Al Socjale (in collaborazione con Teatro Socjale di Piangipane) e Fèsta (a cura di E Production e Ravenna Teatro) e che caratterizzeranno altri momenti della stagione, sono fotografie di Enrico Fedrigoli. 

Il teatro è un luogo dal quale attinge la visionarietà che caratterizza ogni suo progetto fotografico. Fedrigoli porta frequentemente il banco ottico davanti al palcoscenico, costruendo una nuova architettura delle scenografie, del gesto attoriale e del volto, “radiografando” corpi, luci, materie. Tante sono le compagnie che si sono mostrate attraverso il suo sguardo. E lungo è il rapporto di Fedrigoli con la Romagna (vedi i lavori con Teatro delle Albe, Fanny&Alexander, Motus, Menoventi…)

Abbiamo scelto queste sue fotografie enigmatiche, costruite proprio nell’arco di questo anno e mezzo pandemico, perché ci sembra di vedere immagini che già si fanno Teatro. Sono occhi che cercano bellezza, come quelli poggiati sui fiori, ma che mostrano sfaccettature di stati d’animo e ci sorprendono, come l’immagine del pezzo di stalattite appuntito ma sospeso tra le nuvole. Negli ultimi tempi gli occhi sono diventati un centro di attenzione per tutti noi nell’incontro con il prossimo, con i volti costretti dalle mascherine. Gli occhi di Enrico Fedrigoli ci invitano a non perdere lo spirito di osservazione, mantenendo costante una tensione verso la curiosità e il bello. Prendendo in prestito le parole da Carmelo Bene: “Amami! È tanto, sai, è tanto se abbiamo salvato gli occhi!”

INTERVISTA A ENRICO FEDRIGOLI a cura di Alessandro Fogli

Fedrigoli, qual è la genesi delle immagini, realizzate durante il lockdown che connoteranno la stagione teatrale ravennate? Da dove arrivano questi occhi enigmatici?

«Occorre una premessa, ossia la mia grande passione per la fotografia dadaista e per l’avanguardia fotografica tedesca – dal 1919 al 1939 – da cui parte un po’ tutto il mio lavoro, il mio viaggio di vita in pratica. L’origine dell’occhio, molto prima del lockdown, questa attrazione, nasce da una mia questione fisica, perché in tenerissima età ho dovuto portare gli occhiali in quanto affetto da strabismo; degli occhiali correttivi che per un sacco di anni mi hanno costretto a guardare con un occhio solo. Con queste nuove immagini ho trasposto questa cosa di un occhio solo fuori dalla mia testa, e così, avvalendomi di tecniche tipo collage, ritaglio, o le immagini di Raoul Hausmann e della fotografia dadaista, ho voluto portar fuori questo occhio solo, quello col quale vedevo, e ciò mi ha appassionato, perché in un periodo come quello del lockdown occorreva che guardassi all’esterno, il “fuori”, un po’ come spiando da un buco. Dovevo portare lo sguardo fuori dalla camera oscura e dallo studio, in quanto, come tutti, costretto a stare in casa, ho approfittato di questo periodo per portare il mio sguardo all’esterno. Ho poi aggiunto elementi che in quel momento mi interessavano, tipo la conchiglia come lacrima, il fiore come sguardo sulla natura e così via. Esemplificativo di tutto il lavoro è ciò che ho fatto con l’attrice Consuelo Battiston: le ho appoggiato un occhio finto al suo vero, e questa è l’essenza del lavoro, rendere una percezione molto vecchia, di quando avevo tre anni e non esistevano operazioni chirurgiche, quindi occorreva per forza guardare con occhio solo per lunghi periodi. Questo occhio solo mi è rimasto in mente, consciamente o inconsciamente». 

Questo occhio scrutatore, riferito al teatro, che messaggio pensa che potrà trasmettere?

«Potrebbe essere il messaggio di un “terzo occhio”, cioè di qualcuno che viene da fuori, visto che io sono della provincia di Verona, quindi un altro sguardo, un’altra vita, un altro pensiero, e quindi un occhio esterno, fuori dal mio contesto geografico. La percezione, credo, sarà quasi di rilassatezza di sguardo, con quest’occhio che viene collocato in mezzo a oggetti, a situazioni particolari, in volo, in mezzo alle nuvole. È il terzo occhio che ci guarda, ma un occhio umano, non divino».

La tecnica che ha utilizzato è sempre quella del banco ottico?

«Sì, lavoro sempre con quella, per tanti motivi. Per la qualità, in primis, poi per questa scatola che lavora per te: tu non vedi finché fotografi ma è proprio un filo diretto che passa dal cervello alla mano, allo scatto flessibile, e lo scatto flessibile si congiunge all’otturatore dell’obbiettivo, quindi è un po’ come ammaestrare un animale, impossessarsi di una cosa esterna al tuo sguardo ma che costruisci proprio con lo sguardo».

Ha sempre avuto un rapporto privilegiato con gli attori di teatro, che ha fotografato tantissime volte, cos’ha in più un attore quando lo fotografa?

«Più che altro che cos’ha in più il rapporto che si instaura tra chi lavora nel teatro e chi ci sta davanti. Le cose che ci legano sono una forte stima e la conoscenza, una conoscenza che è per forza di lunga data, visto che io non potrei mai lavorare con una persona che non conosco, non ce la farei né fisicamente né psicologicamente. È una sorta di legame quasi matrimoniale, e infatti lavoro con pochissime compagnie, compagnie che mi hanno dato la possibilità di estrapolare dei percorsi personali. Ho attinto molto da questo fertilissimo humus che è il teatro ravennate, soprattutto con Fanny & Alexander e Teatro delle Albe, che sono le due realtà che seguo principalmente e con cui ho il rapporto più intenso. Un legame quindi di forte sentimento, se non ci fosse questo non ci sarebbe nemmeno la volontà degli attori di stare tre o quattro ore in una seduta, di star fermi in posa per trenta secondi, di intuire quello che il tuo cervello intende come tempo meccanico per far sì che avvengano le immagini, per far sì che si veda quello che l’occhio non percepisce. In pratica io e gli attori costruiamo insieme le immagini, non c’è nessuno che costruisce da solo, il 50 percento lo faccio io, l’altro 50 lo fa chi mi sta davanti, e questo è lo spirito col quale lavoro da sempre, non sono io che realizzo l’immagine ma siamo insieme per fare questa cosa che ci fa vincere o perdere. Tanto che a volte ho un po’ di ansie nel realizzare certi ritratti, perché non so mai cosa l’attore percepisca una mia immagine: magari va a scavare troppo sotto pelle? Va a scavare troppo nella psiche?».

BIO

Enrico Fedrigoli è un fotografo professionista dal 1981. Lavora con un banco ottico Linhof 10×12 e cura personalmente la stampa in bianco e nero delle opere, su carta baritata di alta qualità.
“10×12 significa lentezza, riflessione e grande risoluzione dell’immagine, significa architettura di scena, architettura del corpo, pensiero sull’invisibile e sulla dinamica. 10×12 significa pesantezza, fatica e l’uso di un dispositivo che funziona scollegato dalla visione ottica diretta ma coinvolge la costruzione mentale e la progettazione.”

www.enricofedrigoli.it

RAVENNA TEATRO SEGNALA

MEME Festival
Faenza
23 ottobre – 13 novembre
Enrico Fedrigoli

ALBEDO
A cura di Simone Azzoni
Museo Carlo Zauli – Via della Croce 6
Inaugurazione e incontro ore 18:30; con Enrico Fedrigoli e Simone Azzoni, introduce Matteo Zauli
Apertura mostra: martedì e giovedì ore 14-17; mercoledì, venerdì e sabato ore 10-13
Ingresso gratuito

L’albedo è una tappa del processo alchemico. Segue la nigredo. Anticipa la rubedo. Il coagula informe si raffina, il caos si fa cosmo e l’ordine separa i pieni dai vuoti distillando forme. Albedo è stazione di transito. In un passaggio trasformativo del processo ascensionale abbiamo pensato l’incontro tra lo sviluppo creativo della ceramica e quello della fotografia. Cambi di stato in un processo di combustione e svelamento. Sacchi di argilla, forni, calchi e infine la purezza dell’equilibrio tra pieno e vuoto: questo è il cammino alchemico del Museo Carlo Zauli, nel quale agisce la fotografia di Enrico Fedrigoli. Fotografia e ceramica risalgono assieme il loro cammino: dalla materia reale a quella formale. Nel mezzo la teca sospesa è l’albedo di un canone di ritrovata bellezza.

Gli spettatori dovranno essere muniti di green pass secondo le normative vigenti

Informazioni:

349 7629249/ 349 5824266

organizzazione@e-production.org

www.menoventi.com

Il Teatro Rasi si rinnova

Il 19 luglio è iniziato l’intervento di riqualificazione e innovazione funzionale del Teatro Rasi, che consegnerà alla città un teatro di dimensione europea in grado di misurarsi con le diverse esigenze della scena e della ricerca teatrale e multidisciplinare contemporanea. Il progetto è sostenuto dal Comune di Ravenna – Assessorato alla Cultura e dalla Regione Emilia Romagna con la collaborazione di Ravenna Teatro. Il termine dei lavori è previsto per l’inizio di febbraio 2022.

Il Teatro Rasi – ex chiesa di Santa Chiara, poi cavallerizza e poi teatro dalla fine dell’800 – dal 1991 è gestito, attraverso convenzione quinquennale con il Comune di Ravenna, da Ravenna Teatro, centro di ricerca scenica fondato dal Teatro delle Albe – direzione artistica Marco Martinelli e Ermanna Montanari, capostipiti di un’intera comunità artistica – e dalla Compagnia Drammatico Vegetale – direzione artistica Piero Fenati ed Elvira Mascanzoni. 

Irradiato dalla poetica degli artisti e delle compagnie che l’hanno fondato, scommettendo sulla fertilità incessante della scena, Ravenna Teatro intreccia una necessità etica di radicamento nella polis a una vocazione internazionale nella creazione di opere, percorsi di ospitalità, pratiche pedagogiche.

Il Teatro Rasi negli anni è stato anche “casa” per tanti importanti appuntamenti di Ravenna Festival e per i diversi enti convenzionati e patrocinati dal Comune di Ravenna. Un luogo da sempre in dialogo con la città, con le sue energie e i suoi cittadini e cittadine con circa 300 aperture l’anno. 

In questa tensione si inscrive anche il progetto di ristrutturazione del Rasi, che lo trasformerà in uno spazio ulteriormente in linea con la dimensione europea, in cui sarà ridefinito il rapporto con la fruizione e le esigenze della scena contemporanea.

IL PROGETTO

Il progetto prevede la sostituzione delle poltrone con una gradinata telescopica mobile che permetterà usi inediti e l’allargamento e la possibilità di sconfinamento dello spazio scenico a tutta la platea. La gradinata creerà inoltre una nuova piccola sala prove o spettacolo nell’area che oggi è sotto la galleria, e quest’ultima potrebbe diventare a sua volta una piccola sala separata della nuova ‘multisala teatrale’. Tali lavori porranno inoltre estrema attenzione all’aspetto acustico, ottimizzandolo ulteriormente. 

Il progetto, frutto della collaborazione tra il Comune di Ravenna e Ravenna Teatro, è firmato dall’Architetto Carlo Carbone, che solo negli ultimi anni ha ristrutturato Teatro Colosseo di Torino Teatro La cucina-Olinda di Milano, Teatro Koreja di Lecce, Auditorium di Fiesole oltre ad aver lavorato a innumerevoli progetti di acustica come quelli al Palazzetto dello sport Auditorium Mandela Forum di Firenze e tutte le manifestazioni musicali tenute allo stadio Meazza di Milano.

PROCEDURA DI AGGIUDICAZIONE

Per ciò che riguarda i lavori di ristrutturazione e innovazione del Teatro, compresi quelli concernenti la manutenzione degli impianti elettrici dell’edificio, essendo di importo superiore ad euro 150.000, ma inferiore a euro 350.000, sono stati affidati mediante ricorso a procedura negoziata, senza bando, di cui all’art. 63 del D. lgs. n. 50 del 2016, previa consultazione di almeno cinque operatori economici, nel rispetto di un criterio di rotazione degli inviti, che ha tenuto conto anche di una diversa dislocazione territoriale delle imprese invitate, ai sensi dell’art. 1, c. 2, lett. b) del D. L. n. 76/2020 (c.d. Decreto Semplificazioni), convertito con L. n. 120/2020, apportante semplificazione in materia di contratti pubblici;

arredi e attrezzature (tribuna e poltrone): affidamento diretto

Da qui l’opportunità di avviare un intervento di miglioramento, riqualificazione e innovazione funzionale del Teatro Rasi che, dopo la Delibera Giunta Regionale –  Regione Emilia-Romagna n. 1575 del 24/09/2018 avente a oggetto l’approvazione delle graduatorie relative all’avviso pubblico, approvato con delibera di Giunta Regionale n.500 del 09/04/2018, per la presentazione di Progetti relativi a interventi per spese di investimento nel settore dello spettacolo (anno 2018) lr 13/1999 “norme in materia di spettacolo”, ha portato alla realizzazione del progetto, affidato all’architetto Carlo Carbone, mediante ricorso a procedura negoziata (vinto dalla Cooperativa Muratori e Cementisti Faenza Soc. Coop.) il cui costo totale è di € 400.000, con contributo assegnato dalla Regione di € 200.000 e contributo assegnato dal Comune di Ravenna di €200.000.

IMPRESE SELEZIONATE

Oltre alla Cooperativa Muratori e Cementisti Faenza Soc. Coop., le altre imprese che parteciperanno ai lavori sono: Adriatica Ponteggi S.r.l, Iged S.r.l., Innova S.r.l, Steel Poll Cantieri, Tesco S.r.l.

foto di Marco Parollo