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Carlo Cecchi e Eduardo

La Stagione dei Teatri 2021/2022
Dolore sotto chiave / Sik Sik l’artefice magico di Eduardo De Filippo e con Carlo Cecchi
20-23 gennaio 2022, Teatro Alighieri

 

Presentazione di Dolore sotto chiave / Sik Sik l’artefice magico per La Stagione dei Teatri 2021/2022, a cura di Alessandro Fogli.

fotografia di Matteo Delbò

Il pubblico ravennate ha potuto apprezzarlo l’ultima volta nel 2015 – quando al Teatro Alighieri fu interprete e regista dello shakespeariano La dodicesima notte – e ora Carlo Cecchi torna in città alle prese con Eduardo De Filippo e due piccoli gioielli dell’assurdo quali Dolore sotto chiave e Sik Sik l’artefice magico. Un legame che viene da lontano, quello con Eduardo, con cui Cecchi lavorò nel 1969 all’inizio della sua carriera ma che dopo un burrascoso periodo decise di lasciare. Dopo qualche tempo però i due si riappacificarono e adesso – come ha raccontato lo stesso Cecchi anche in una recente intervista – l’attore ricorda ancora quei momenti con molto piacere.

Attore (con all’attivo anche tantissimi film) e regista, il fiorentino Carlo Cecchi è un vero e proprio maestro del teatro che ha attraversato il Novecento, e confrontarsi con lui significa confrontarsi con un repertorio di spettacoli non solo sconfinato a livello numerico ma anche (e soprattutto) estremamente composito, che va da Shakespeare alla farsa dialettale napoletana, da Molière all’ottocentesco Büchner, da Majakovskij a Brecht, da Pirandello ad alcuni dei massimi autori contemporanei quali Beckett, Pinter, Bernhard.

È interessante però scoprire cosa scrive di Cecchi Claudio Meldolesi – il nostro maggior storico teatrale del secondo Novecento – nel suo Fondamenti del teatro italiano: «Cecchi mi ha detto “io non faccio parte del teatro italiano”».

«Questo teatro italiano al quale Cecchi rivendica polemicamente di non appartenere – spiega Marco De Marinis, che con Cecchi sarà in dialogo nell’incontro con il pubblico di sabato 22 gennaio – è in buona sostanza il teatro di regia, quello che agli inizi degli anni Sessanta, quando egli comincia il suo percorso artistico, è al potere alla testa degli Stabili (non a caso il nome che sceglie nel ’68, sembra su consiglio dell’amica Elsa Morante, per il suo gruppo – inizialmente denominato Compagnia del Porcospino – costituisce l’ironico rovesciamento di uno dei teatri leader del tempo, e anche adesso: Granteatro come il contrario del Piccolo Teatro e della sua estetica)». Il teatro di regia italiano è dunque avversato fin dagli inizi da Cecchi come un teatro «che nega in fondo se stesso – come afferma in un’intervista del ’97 – perché se neghi, impedisci agli attori di essere attori, neghi la possibilità stessa del teatro». Per poi chiarire: «Ero un attore che, certo di essere un attore, si è trovato dentro un teatro, che era il teatro dei primi anni sessanta […] che negava la certezza del mio essere attore». Spiega ancora De Marinis che per Carlo Cecchi «in questa progressiva presa di coscienza di una non-appartenenza, e soprattutto per l’elaborazione di una sua proposta fondata su presupposti radicalmente diversi, decisivi risultano tuttavia due apprendistati degli anni sessanta: quello con il Living Theatre e quello con Eduardo De Filippo». Il Living Theatre, come ebbe a scrivere Franco Quadri nel 1977, «gli ha insegnato il valore della partecipazione collettiva, la plasticità del gesto, l’esattezza dei ritmi vocali e dinamici, l’uso della sottolineatura sonora […] il senso dello spazio in cui lo spessore dei corpi si fa scenografia».

Carlo Cecchi. Fondazione Teatro Stabile di Torino, Associazione Teatro di Roma, Teatro Stabile delle Marche. La serata a Colono. 2013. ©fotografia di Mario Spada.

 

«Quanto a Eduardo De Filippo – illustra De Marinis –, definito dallo stesso Cecchi nell’81 “il massimo esempio di un teatro vivente”, è da lì “che consegue – secondo Quadri – il riconoscimento del ruolo e della preminenza dell’attore, accompagnato al gusto per il soggetto, all’immissione di antichi lazzi, alla sapiente rarefazione dei tempi, all’apprezzamento dell’importanza della contaminazione comica”».

Ed eccoci quindi a questi due atti unici eduardiani che Cecchi – insieme ad Angelica Ippolito (anch’ella parte della compagnia di De Filippo nei primi anni ’70), Vincenzo Ferrera, Dario Iubatti, Remo Stella e Marco Trotta – porta in scena all’Alighieri dal 20 al 23 gennaio. Dolore sotto chiave nasce come radiodramma nel 1958, andato in onda l’anno successivo con Eduardo e la sorella Titina nel ruolo dei protagonisti, i fratelli Rocco e Lucia Capasso. Con questo lavoro De Filippo torna a occuparsi del tema della morte, come aveva già fatto in tante sue opere, inscenando un gioco beffardo sul suo senso, ridicolizzandola, esorcizzandola, perché è anch’essa parte delle nostre esistenze e cercare di negarla significa negare la vita stessa. Sik-Sik l’artefice magico, atto unico scritto nel 1929, è invece uno dei capolavori del Novecento. «Come in un film di Chaplin – dice Carlo Cecchi – è un testo immediato, comprensibile da chiunque e nello stesso tempo raffinatissimo. L’uso che Eduardo fa del napoletano e il rapporto tra il napoletano e l’italiano trova qui l’equilibrio di una forma perfetta, quella, appunto, di un capolavoro». Sik-Sik (in napoletano, “sicco” significa secco, magro e, come racconta lo stesso Eduardo, si riferisce al suo fisico) è un illusionista maldestro e squattrinato che si esibisce in teatri di infimo ordine insieme con la moglie Giorgetta e Nicola, che gli fa da spalla. Una sera il compare non si presenta per tempo e Sik-Sik decide di sostituirlo con Rafele, uno sprovveduto capitato per caso a teatro. Con il ripresentarsi di Nicola poco prima dello spettacolo e con il litigio delle due “spalle” del mago, i numeri di prestigio finiranno in un disastro e l’esibizione si rivelerà tragica per il finto mago ma di esilarante comicità per il pubblico.

 

 

Il suono dell’esilio

La Stagione dei Teatri 2021/2022
Cabaret Yiddish di e con Moni Ovadia
9-12 dicembre 2021, Teatro Alighieri

 

Presentazione di Cabaret Yiddish, di e con Moni Ovadia, secondo appuntamento de La Stagione dei Teatri 2021/2022, a cura di Alessandro Fogli.

Manifesto di Cabaret Yiddish, fotografia di Maurizio Buscarino

 

È tante cose, Moni Ovadia: attore, cantante, musicista, scrittore. Probabilmente però, più di ogni altra cosa, Ovadia è, come lui stesso a volte si definisce, «un militante per le cause della pace e della giustizia sociale, dei diritti degli uomini e dei popoli, della dignità». Pace, giustizia, dignità, diritti dei popoli, da dove arrivano tutte queste vocazioni? Forse dalle sue radici e dalla sua formazione.

Natali bulgari, si trasferisce ancora bambino a Milano con la famiglia, di ascendenza ebraica sefardita, ma di fatto impiantata da molti anni in ambiente di cultura yiddish e mitteleuropea. Questa circostanza influenzerà profondamente tutta la sua opera di uomo e di artista, dedito costantemente al recupero e alla rielaborazione del patrimonio artistico, letterario, religioso e musicale degli ebrei dell’Europa orientale, patrimonio che trova consacrazione imperitura in uno spettacolo in particolare di Moni Ovadia, quello che ha sancito il suo successo teatrale e che, non a caso, viene replicato da quasi trent’anni con immutato successo. Cabaret Yiddish nasce come “spettacolo da camera” nel 1992 (da esso verrà poi derivato il celeberrimo Oylem Goylem) e con questo lavoro Ovadia ha letteralmente diffuso in Italia la conoscenza della cultura yiddish e della musica klezmer.

«La musica klezmer ha due caratteristiche – spiega Ovadia – è una soul music, perché è la musica di un popolo, della sua anima; ed è una world music, perché pur avendo un’anima specifica non è solipsista, bensì composta da tante esperienze sonore e timbriche provenienti da tutto il grande bacino in cui vivevano le comunità ebraiche orientali». Come il titolo suggerisce, quello che andrà in scena al Teatro Alighieri per La Stagione dei Teatri 2021-22 è uno spettacolo in forma di cabaret, che alterna gustose “storielle” di vita e riflessioni satiriche sulla famiglia e la società ebraiche, sul razzismo, il rapporto col divino, con musiche, canti e danze eseguite dal vivo (dallo storico gruppo composto da Maurizio Dehò al violino, Paolo Rocca al clarinetto, Albert Florian Mihai alla fisarmonica e Luca Garlaschelli al contrabbasso). Uno spettacolo pulsante di vita, ipercinetico, divertente, profondo, in cui la lingua, la musica e la cultura yiddish – un inafferrabile miscuglio di tedesco, ebraico, polacco, russo, ucraino e romeno – fanno da contrafforte alla condizione universale dell’Ebreo Errante, che dai tempi di Mosè a oggi ha sempre vissuto la condizione dell’esilio, solo a volte riuscendo ad affermarsi, quasi sempre guardato con diffidenza, se non con ostilità. Uno spettacolo che «sa di steppe e di retrobotteghe, di strade e di sinagoghe» e che è ciò che Moni Ovadia chiama «il suono dell’esilio, la musica della dispersione», in una parola della diaspora. E se lo yiddish è la lingua di quella parte di cultura ebraica che racconta Ovadia, il klezmer – che deriva dalle parole ebraiche kley e zemer, ossia violino e clarinetto, con cui si suonava la musica tradizionale degli ebrei dell’est europeo a partire all’incirca dal XVI secolo – ne è la colonna sonora. «Ho scelto di dimenticare la “filologia” – dice Ovadia – per percorrere un’altra possibilità proclamando che questa musica trascende le sue coordinate spazio-temporali “scientificamente determinate”, per parlarci delle lontananze dell’uomo, della sua anima ferita, dei suoi sentimenti assoluti, dei suoi rapporti con il mondo naturale e sociale, del suo essere “santo”, della sua possibilità di ergersi di fronte all’universo, debole ma sublime. Gli umili che hanno creato tutto ciò prima di poter diventare uomini liberi, sono stati depredati della loro cultura e trasformati in consumatori inebetiti ma sono comunque riusciti a lasciarci una chance postuma, una musica che si genera laddove la distanza fra cielo e terra ha la consistenza di una sottile membrana imenea che vibrando, magari solo per il tempo di una canzonetta, suggerisce, anche se è andata male, che forse siamo stati messi qui per qualcos’altro». In Cabaret Yiddish Moni Ovadia conduce dunque lo spettatore all’interno di una comunità di cui spesso si conoscono solo i caratteri esteriori o le tragedie, andando a disvelare pregiudizi, negativi e positivi.

Cabaret Yiddish è anche il secondo spettacolo dell’anta de La Stagione dei Teatri denominata Malagola, che prende il nome dalla scuola di vocalità e centro studi sulla voce diretto da Ermanna Montanari. Il progetto raccoglie, a Ravenna, attività dal respiro internazionale tra loro intrecciate: la scuola, gli archivi d’arte e quelli audiovisivi della scena contemporanea, una collana editoriale dedicata, incontri, spettacoli e concerti che si articoleranno tra il Rasi, Alighieri e Palazzo Malagola. Moni Ovadia fa parte del corpo docente di Malagola e nei giorni dello spettacolo terrà una serie di lezioni di Pratiche di creazione sonora.