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Punzo: “Noi siamo utopia realizzata”

LA STAGIONE DEI TEATRI 2023-2024

In occasione de Il figlio della Tempesta. Musiche, parole e immagini dalla Fortezza, in scena  per La Stagione dei Teatri 2023/2024 sabato 23 marzo alle 21:00 al Teatro RasiFederica Ferruzzi ha intervistato Armando Punzo.

 

Regista e drammaturgo, Armando Punzo ha fondato nell’ ’88 la Compagnia della Fortezza nel carcere di massima sicurezza di Volterra. Si tratta di uno dei primi progetti di teatro, in Italia, portato in un centro di reclusione.

Trentacinque anni di sfide, tentativi, dubbi, successi, arresti e ripartenze: cosa l’ha portata ad intraprendere questa esperienza?

“Credo che l’origine sia nel fatto che ho incontrato il teatro come possibilità, per la mia vita innanzitutto; questo mi ha condotto a Volterra nell’82, dov’era il Gruppo Internazionale L’avventura, che veniva dal teatro di Grotowski. Qui mi sono misurato con l’idea di un teatro non istituzionale, non legato alla tradizione, bensì all’idea del performer, dove metti in gioco te stesso più che rappresentare personaggi. Un teatro che ti sfida personalmente e che ti porta a nuove forme di creazione. Ho fatto parte di questa realtà per tre anni, poi il gruppo si è sciolto e io sono rimasto lì, continuando nella mia ricerca di teatro istituzionale e ho pensato di creare qualcosa di nuovo, così è nata la Compagnia della Fortezza”.

Quante persone hanno aderito inizialmente?

“Durante il primo anno sono state una ventina, erano soprattutto italiane. Si era iscritta tutta la comunità napoletana, ed è stato un po’ paradossale, visto che avevo sempre fatto di tutto per scappare da Napoli. Poi ricordo un cileno, un marocchino. Quello di Volterra è un carcere con stranieri di tutte le nazionalità: ci sono ucraini, russi, rumeni, tanti italiani, ma soprattutto persone del Sud, sia dell’Italia che, più in generale, del mondo. Il Sud è in carcere, e le ragioni sono evidentemente sociali, economiche, legate ad una povertà che porta a questo. In trentacinque anni non ho mai visto uno svedese, erano quasi tutti da Roma in giù”.

Oggi quanti siete?

“Oggi siamo dalle sessanta alle ottanta persone, alcune si occupano dei costumi, altre delle scenografie. Nell’ultimo spettacolo allo Strehler, dal titolo Naurae, eravamo ottantadue”.

In trentacinque anni come è cambiata l’attività?

“All’inizio era tutta una scoperta su come riuscire a muoversi in carcere, anche se questo aspetto non cambia mai; cambia la popolazione detenuta nei modi di essere, non si arriva mai ad una staticità, ad un consolidamento. Il carcere sembra un luogo immobile, ma è in continuo fermento. Tutti i giorni è realtà viva, dove di sicuro non c’è il rischio della routine, non posso certo vivere sugli allori. In questi anni abbiamo fatto cose che sembravano impossibili, abbiamo lavorato tanto su questo concetto, ci ho costruito sopra anche un festival. Sembrava tutto utopico, ma nel senso che intende Bloch, quando sostiene che noi siamo utopia realizzata, concreta. Abbiamo fatto cose impensabili grazie alla potenza della cultura, a quella forza data da uomini che si mettono insieme. Anche di questo parleremo durante l’incontro del 22 marzo in Classense, quando presenteremo il libro Un’idea più grande di me”.

Da cosa nasce il libro?

“Nasce dal bisogno di raccontare la mia esperienza: in proposito è stato detto e scritto tanto, ci sono state pubblicazioni che non sempre mi rispecchiavano e avevo bisogno di dire la mia. Questa è un’esperienza che rischia di essere accostata all’idea di teatro sociale, ma è un’etichetta in cui non mi sono ritrovato, perché punitiva dal punto di vista artistico. Quello sociale è un tipo di teatro legato alla cura, finalizzato non a un’espressione artistica, quanto al fatto che debba essere funzionale ad un’educazione e ad una risocializzazione del singolo. Quando ho fondato la Compagnia, non volevo lavorare con professionisti e non mi piaceva il teatro di ricerca di quegli anni. Sono andato in carcere per sperimentare la potenza del teatro con persone che non lo conoscevano. Avevo bisogno di sfidarmi e di sfidare. Non è un libro di memorie, ma ho chiesto a Rossella Menna di sviluppare i nostri lunghissimi dialoghi: Un’idea più grande di me è il mio manifesto artistico, in cui dico anche quanto il mio teatro sia stato travisato”.

Cosa ha trovato in carcere?

“Ho trovato l’idea della prigione, che poi è legata alle mie prime letture, le suggestioni di Gurdjieff, il concetto che tutti siamo prigionieri, un’idea platonica legata al mito della caverna che accomuna diverse culture. Siamo imprigionati nei nostri meccanismi, e quindi ho pensato che potessimo lavorare su una grande metafora. Ma, come dicevo, non è un teatro sociale: lì il destinatario finale è la persona che lavora, mentre quando si compie un’attività artistica ci si rivolge al pubblico. Poi è ovvio che la persona c’entra tanto e io sono il primo a trarre benefici da tutto questo”.

C’è una frase che più l’ha accompagnata in questi anni?

“Ce ne sono tante, ma la prima che mi viene in mente è quella di Aniello Arena, un attore, ex detenuto che, una volta espiata la pena, ha fatto cinema con Matteo Garrone e ora è anche su Netflix. È stato sedici anni con noi e una volta mi disse in napoletano: ‘Ma non lo potevo scoprire prima, tutto questo?’

E lei cosa gli rispose?

“Che tutto quello che era stato, era stato, ma che da quel momento in poi era tutto nelle sue mani. Al Sud ci sono storie incredibili, lo sappiamo, ma quando le tocchi con mano ti rendi conto che mancano cose basilari, è incredibile ma è ancora così. Sacche di umanità, milioni di persone che vivono in condizioni difficili, dove l’accesso alla cultura è qualcosa di impensabile e dove il luogo in cui vivi condiziona profondamente quello che sei”.

L’ironia, la nostra forma di contestazione

LA STAGIONE DEI TEATRI 2023-2024

In occasione di 7-14-21-28, in scena per La Stagione dei Teatri 2023/2024 martedì 19 marzo, alle 21:00, al Teatro Alighieri, Federica Ferruzzi ha intervistato Antonio Rezza e Flavia Mastrella.

Antonio Rezza @Giulio Mazzi

Raggiungiamo telefonicamente Antonio Rezza mentre è in viaggio verso Perugia, dove la sera andrà in scena Hybris, uno spettacolo del 2022. “Mi faccia pensare…ah sì, Ravenna: porteremo 7-14-21-28, uno spettacolo del 2009: sa, siamo l’unica compagnia a portare in giro la totalità dei nostri spettacoli e quest’anno siamo a quota nove su nove. Siamo gli unici a farlo, e non mi riferisco solo all’Italia. È una scelta scriteriata, lo so”.

Come si riesce a tenerli a bada tutti e nove?

“Per me non è una grande fatica, una volta che ho fatto memoria sono a posto, gli spettacoli sono nati con me, li riacquisisco in fretta. Sul palco siamo io e Ivan Bellavista, lo abbiamo appena fatto in gennaio a Savona, ormai va in automatico. Forse fa più fatica Flavia (Mastrella, ndr), a dover ricomporre le scenografie ogni volta, magari qualcosa si rompe. La memoria, invece, non si rompe mai”.

Cambiano le città e cambia anche il pubblico, com’è la relazione con gli spettatori?

“Il pubblico guarda e basta, lo spettacolo va visto: chi guarda, guarda, chi fa, fa. Ogni volta, anche per non annoiarci, si spera sia diversa la dinamica. Ad esempio lo spettacolo di questa sera vedrà otto attori sul palco, abbiamo provato a diversificare portando tante persone, è sempre difficile fare spettacoli nuovi. La gestazione può durare tanto, non si è mai soddisfatti”.

Insieme, lei e Mastrella avete creato un sodalizio che è ancora in grado di dare nuovi spunti: come si fa, dopo così tanti anni?

“Facendo più cose: ci occupiamo anche di cinema, di scultura, di scrittura, quando è possibile anche di televisione. Tante cose diverse per non cadere nella trappola della specializzazione. Essere multiformi significa anche annoiarsi di meno”.

E il teatro a che punto si colloca?

“Il teatro finanzia tutto quello che facciamo, è ancora la via più libera per l’espressione, rispetto ad esempio al cinema, che non è un terreno libero a meno che non ti produci i film da solo. Flavia si occupa di mostre con sculture quando vuole. Noi non siamo finanziati dallo Stato, ma la memoria è labile e di sicuro non saremo ricordati per questo”.

E per cosa?

“Per l’irregolarità, l’unicità, perché facciamo cose che altri non fanno. E lo dico senza presunzione, ce lo dicono da quando abbiamo iniziato. Ecco, magari si potrebbe pensare ad una Fondazione, ma solo una volta che saremo morti: quella sì, potrebbe essere pagata dallo Stato, ma solo quando non ci saremo più. L’istituzione è l’oggetto del dissenso, non puoi prendere soldi da chi non condividi quello che fa, ma questo è un trasformismo abbastanza diffuso”.

Veniamo a 7-14..com’è raccontare la realtà attraverso i numeri?

“I numeri vanno fatti divertire, diventano come le parole: ad esempio posso dare idea di disperazione leggendo una data. Se io dico che una persona è morta 24 anni 71 anni fa, creo uno stato d’animo. Purtroppo spesso l’attore si sforza di essere credibile, mentre dovrebbe essere incredibile. Purtroppo il realismo ha rovinato parecchie menti, è un compromesso. Non dico che De Sica abbia sbagliato a fare film, ma ne basta uno come lui. Nessuno mente più dei realisti. La riproposizione della realtà è una menzogna: se uno ha la bellezza della fantasia, che ti frega della diga del Vajont?”.

Vuole aggiungere qualcosa?

“Sì: stanno sterminando un popolo e nessuno lo dice, io sto dalla parte dei palestinesi. Ci sono menti che fanno attenzione ad esprimersi per paura di non lavorare più, sono artisti falsamente progressisti. Ce lo fanno notare anche alcuni professori quando andiamo nelle università, questa cosa di certi artisti che non prendono posizione”.

Com’è rapportarsi con i giovani universitari? Che impressione fanno?

“La situazione è molto cambiata rispetto a vent’anni fa. L’Università di oggi sembra un liceo, i licei sembrano scuole medie, le medie fanno l’effetto delle elementari e le elementari sembrano materne. È tutto declassato. Oggi si diventa universitari solo con la morte dei genitori, solo con una perdita irreparabile uno matura un po’. Una volta si protestava, c’erano i direttivi politici, ora esiste solo you tube. Ai miei tempi c’era una coscienza, anche corrotta, ma almeno c’era. Oggi ci sono gli influencer”.

Al telefono Flavia Mastrella ci dice che, mentre Rezza è in giro con gli spettacoli, lei è già all’opera per il prossimo lavoro. “Non posso dire molto, al momento vivo in clausura, ma stiamo cercando di muovere qualcosa, è già tanto” spiega, mentre racconta della torunée che segue da lontano. “Quelle che circolano sono strutture molto delicate, in quanto lavoro sull’equilibrio, sulle fragilità. È come avere dei bambini: hanno bisogno sempre del medico, e non c’è vaccino che tenga. La scelta di portarli tutti in giro è  fonte di vita, lavorare in questo modo ci permette di mantenere viva l’arte che ci ha preceduto e che ci segue ancora. Nel tempo ci siamo mantenuti ‘puliti’, facciamo ancora quello che ci passa per la testa, a caro prezzo, ma vuoi mettere la soddisfazione? Le persone ci seguono con gioia”.

Com’è il rapporto che vi lega al pubblico?

“Per noi gli spettatori sono tutto: senza di loro non saremmo potuti esistere. In un sistema teatrale come il nostro, un po’ conservatore, il pubblico ci ha seguito, incoraggiato e permesso di entrare in sala. Principalmente abbiamo lavorato per raccontare il presente – cosa che in Italia è quasi vietata – attraverso l’ironia, che è anche una forma di contestazione in un mondo che ci vuole tristi e impauriti”.

Insieme avete creato un sodalizio che è ancora in grado di dare nuovi spunti: come si fa, dopo così tanti anni?

“Io viaggio fuori dal tempo, a me dieci anni sembrano tre giorni. Essendo sempre impegnata sull’aspetto creativo studio in continuazione, sono sempre intenta a guardare e non mi pesa il tempo, bensì mi manca: se penso che ho pochi anni ancora di ricerca e creatività lavorerei giorno e notte. Il teatro è stato lo spazio più libero che abbiamo trovato, è la condizione fondamentale, senza potremmo morire: su questo siamo d’accordo, è l’unico punto che ci accomuna”.

Rezza dice che sarete ricordati per l’irregolarità, anche per lei è così ?

“Secondo me tenteranno invece di regolarizzarci. Carmelo Bene è stato un innovatore non solo a livello di parola e direzioni teatrali, ma anche di spazio. Era innovativo, ma di questo aspetto non si parla mai: si parla solo del rapporto che ha avuto con i testi storici, ma non della sua innovazione. Ha portato in scena Pinocchio, in cui recitava in maniera incredibile, eppure si parla solo del testo”.

Veniamo allo spettacolo che porterete: com’è raccontare la realtà attraverso i numeri?

“Avevamo già pensato di fare una trilogia sulla realtà numerica, ci sembrava stessimo diventando numeri. Da alcuni anni il codice fiscale è diventato fondamentale per fare tutto, mentre fino a poco tempo fa i numeri e le password non erano molto importanti. In scena c’è un ideogramma gigantesco composto da un’altalena e da una falce da cui pende un tessuto. Rappresenta la fine dei giochi, il passaggio da un sistema bambino a un sistema adulto”.

Vuole aggiungere qualcosa?

“Sono contraria ad ogni forma di violenza e di attacco sull’altro: è chiaro che stiamo assistendo allo sterminio dei palestinesi, che peraltro dura da cent’anni, ma pensiamo anche a noi, visto che ci stanno annientato e con noi la nostra cultura. Stiamo diventando i camerieri dei turisti, oggi è impossibile realizzare un’attività creativa, e per chi ha 30 anni è dura. Viviamo in un’epoca in cui avere un bagaglio culturale sembra inutile, ci stanno fregando, ma di questo non parla nessuno”.

Come sono i giovani universitari?

“Io li adoro: ultimamente abbiamo avuto alcuni stagisti che non se ne sarebbero più andati. Nessuno dice loro che esiste la libertà espressiva, soprattutto in teatro li si obbliga sempre a seguire determinati canoni. Gli studenti pensano ci sia solo questo modo, ma io ho cercato di far capire loro che non è vero facendo controinformazione. A questi ragazzi, in generale, dico: ‘studiate e poi fate il contrario, però, intanto, studiate'”.

Barabba, un testo che parla a tutti noi

LA STAGIONE DEI TEATRI 2023-2024

In occasione di Barabba, in scena per La Stagione dei Teatri 2023/2024 giovedì 14 marzo, alle 21:00, al Teatro Rasi, Federica Ferruzzi ha intervistato la regista Teresa Ludovico.

Foto di scena@Balto Videomaker

Teresa Ludovico è una profonda conoscitrice dei testi di Antonio Tarantino. Abituata alle sue parole, avendo messo in scena negli anni passati La casa di Ramallah, Namur, Cara Medea e Piccola Antigone, ha proposto di recente un inedito del 2010, Barabba, che tra le opere di Tarantino è una delle meno conosciute.

Ludovico, negli ultimi anni lei si è dedicata con passione a un profondo scavare nei testi del drammaturgo, che cosa è emerso?

“Una scrittura che è sostanzialmente e profondamente umana, e che non lascia spazio ad orpelli. Una scrittura intima, che ha una sua verticalità, nel senso che affonda le radici nel profondo per creare un’elevazione. La pittura è stata il primo linguaggio di Tarantino, ma quando questa è andata in esaurimento, non corrispondendogli più, si è dedicato al teatro scrivendo lo Stabat Mater, che ebbi la fortuna di vedere nel ’92. In quegli anni gli attori e gli autori lavoravano con il linguaggio del corpo, la parola era meno centrale, quindi lo spettacolo mi impressionò profondamente: era una valanga di parole, una scrittura sorprendente, ma allo stesso tempo toccante. Da lì ho seguito il suo percorso, perché l’aspetto che ancora oggi mi colpisce è la lingua che crea”.

Che tipo di lingua è e cosa ci dice, dell’oggi?

“È una lingua molto complessa da attraversare, perché è come una stratificazione: l’impressione è quella di essere archeologi, togli un pezzo e sotto c’è un’altra era. Noi siamo fatti di strati, di incontri, di un tempo storico, e la cosa bella è che dentro quella scrittura ci si possono riconoscere tutti. Ci sono archetipi, a volte evangelici, che hanno a che fare con la zona del sacro. Il sacro, per me, è anche la grande questione che, al di là delle religioni, abita dentro di noi. Attraverso i suoi testi, Tarantino tocca qualcosa che è legato al sacro, al mistero delle cose: per questo ritengo che Barabba rappresenti il suo testamento spirituale. L’autore ci consegna un testo in cui parla della verità e della presunzione di cercarla nell’alto dei cieli o nel profondo della terra, mentre l’abbiamo vicina e non ce ne accorgiamo”.

A chi parla Barabba?

“Tramite Barabba, Tarantino parla a tutti noi e a se stesso. Barabba siamo noi e il testo ci consegna una serie di domande, di cui molte bellissime. Pensiamo all’ultima affermazione del protagonista: ‘Ma se Lui mi ha assicurato che me la caverò, allora vuole dire che ci devo credere, perché è venuto qualcuno che mi ha voluto bene’. Una frase del genere, pronunciata da Barabba, liberato al posto del Cristo, che dovrebbe invece essere la Verità, fa riflettere. Tarantino dà voce agli ultimi, e lui stesso ha vissuto una vita ai margini della società. Era schivo, ha ricevuto tanti premi, ma scriveva per necessità, non per essere riconosciuto. È stato una persona umile e molto coerente”.

Lo spettacolo è un lungo monologo, tante parole e una fortissima fisicità del protagonista. È uno spettacolo sulla scrittura, ma anche sul corpo, un corpo che viene ingabbiato anche grazie alle luci ideate da Longuemare…

“Per me il teatro è qualcosa di totale, come il linguaggio, ed è per questo che parlo, qui in particolar modo, di parola incarnata: le parole non sono dette, ma assunte nella carne, è il corpo che parla, la voce vi risuona dentro. Ho cercato di mettere in scena un corpo imprigionato: noi stessi siamo vittime della nostra condizione e facciamo fatica ad uscirne. Volevamo costruire uno spazio scenico che avesse la verticalità della scrittura, infatti è presente una scala, poi Longuemare ha avuto la geniale idea di una struttura di tubi che ricordasse il cantiere, quindi scale, attraversamenti, un corpo imprigionato all’interno di strutture fisiche. Una partitura precisa che corrispondesse ad una altrettanto precisa drammaturgia delle luci, che esaltasse allo stesso modo il testo e il corpo”.

Goldoni, una lingua pensata per il corpo dell’attore

LA STAGIONE DEI TEATRI 2023-2024

In occasione de La Locandiera, in scena per La Stagione dei Teatri 2023/2024 giovedì 7, venerdì 8, sabato 9 marzo, alle 21:00, e domenica 10, alle 15:30, al Teatro Alighieri, Federica Ferruzzi ha intervistato Sonia Bergamasco.

Con La Locandiera Sonia Bergamasco torna a lavorare con Antonio Latella e porta in scena una Mirandolina che promette di essere molto attuale. Quali sono le sue caratteristiche?

“Latella è un amico degli inizi: abbiamo lavorato insieme a Massimo Castri quando Antonio era ancora in scena come attore, successivamente abbiamo preso strade diverse e ci siamo ritrovati di recente, ovvero tre anni fa, quando mi chiese di interpretare Martha in Chi ha paura di Virginia Woolf. Per me si è trattato di un incontro felicissimo, che desideravo da sempre, con un regista di grandissima sensibilità e valore, che collabora con gli attori dal primo istante e non si stanca mai di restare in ascolto. È un regista forte, che propone visioni altrettanto forti, ma che è capace di mettere al centro il lavoro dell’attore. Un agire che per me è essenziale, emozionante, è quello che a me interessa. La Locandiera di Goldoni rappresenta un ritorno, ci siamo trovati insieme sulla Trilogia della Villeggiatura, di conseguenza tornare a Goldoni con un testo chiave è stata una proposta a cui non potevo rinunciare e ogni replica è una gioia, una scoperta continua”. 

Il cast è ricco, e oltre al regista ritrova anche Ludovico Fededegni, con cui ha lavorato nello spettacolo che è valso ad entrambi il premio Ubu. Ci si immagina un contesto di forte affiatamento, che pensiamo faciliti anche la messa in scena, creando un valore aggiunto…

“La scelta degli attori, il casting, è anche questa un’arte che Antonio conosce bene: le sue scelte sono sempre dettate da qualità non solo artistiche, ma anche umane, che rappresentano il valore aggiunto. Quando c’è l’incontro, si sente. Ludovico era un compagno di lavoro già dallo spettacolo precedente, era l’unico con cui ero già stata in scena. Siamo in otto e non avevo mai affiancato nessuno di loro, anche se conoscevo benissimo Giovanni Franzoni. Per me continua ad essere un bellissimo incontro, aspetto non scontato”.

Qual è l’accoglienza riservata finora dal pubblico alla Locandiera?

“Abbiamo avuto la grandissima soddisfazione di aver visto teatri strapieni, con moltissimi giovani, anche perché La Locandiera è il fulcro del sistema scolastico, ma non è detto che gli studenti vengano a teatro di sera. Anche a Bologna abbiamo ricevuto una splendida accoglienza, soprattutto da parte di molti giovani, e allo Strehler abbiamo avuto il teatro esaurito fin dal primo giorno. L’allestimento è molto contemporaneo, Annelisa Zaccheria e Graziella Pepe sono collaboratrici storiche di Antonio, così come Franco Visioli. Insieme contribuiscono a creare uno spazio molto bello, ma anche molto impegnativo, che l’attore disegna di scena in scena. Se però i costumi sono molto contemporanei, la lingua di Goldoni viene rispettata in toto: è una lingua fisica pensata per il corpo dell’attore”.

Ora la porta a Ravenna, dove lei sarà impegnata anche come docente del Corso di alta formazione a Malagola con un seminario dal titolo ‘La voce immaginaria’. La voce, per un attore, o un’attrice, è fondamentale: cosa dice, di noi ?

“Per me dice tutto, nel senso che la voce di un essere umano che si manifesta dice di questa creatura quello che vuole dire, ma anche quello che vorrebbe tacere. La voce è corpo intero di un essere umano, nell’attore è strumento fisico, denso, un elemento plasmabile sul quale lavorare e che può produrre cortocircuiti e scoperte. ‘La voce immaginaria’ è anche indicazione di un possibile percorso, perché l’immaginazione è un’arma creativa, forse l’arma creativa per eccellenza che abbiamo a disposizione e anche la vocalità entra in questa direzione”.

Non chiamatelo teatro civile

LA STAGIONE DEI TEATRI 2023-2024

In occasione de Una notte sbagliata, in scena per La Stagione dei Teatri 2023/2024 venerdì primo marzo alle 21:00 al Teatro RasiFederica Ferruzzi ha intervistato Marco Baliani.

Lo abbiamo visto in una scena spoglia su un piccolo sgabello tratteggiare, con il solo uso delle parole, l’intera terra di Germania, tanto che se si chiudevano gli occhi si potevano perfino vedere lo junker, la moglie o il principe sassone che animano la vicenda di Kohlhaas, il primo spettacolo con cui Marco Baliani ha inaugurato La Stagione dei Teatri. Lo abbiamo sentito riprodurre il rumore degli zoccoli dei cavalli con il corpo in modo talmente convincente che pareva quasi di essere in sella con il protagonista, lui che a cavallo non c’è mai stato, e raccontarci una storia che ci ha fatto uscire da teatro pieni di interrogativi. A fine novembre Marco Baliani, tra i fondatori del teatro di narrazione, ha dato voce alla storia di un sopruso ambientata nel 1500, mentre oggi, a distanza di pochi mesi, torna per raccontarne una più recente, che promette di regalare le stesse inquietudini che solo una storia ben raccontata riesce a fare.

Come nasce Una notte sbagliata?

“Sono partito da un’esperienza personale: è la storia di una persona bipolare, disturbata, che porta il cane a pisciare in un quartiere periferico, di notte. Si tratta del classico caso di posto sbagliato al momento sbagliato. Sul luogo arriva una pattuglia di uomini dell’Arma: persone sottopagate, frustrate, che si ritrovano in un quartiere in cui non sono amate. Quando gli agenti incontrano Tano (il protagonista, ndr) cominciano a divertirsi, all’inizio quasi bonariamente, ma il ragazzo soffre di un disturbo mentale e quando qualcuno gli si avvicina troppo diventa violento. Fino a qui potrebbe sembrare la cronaca, molto comune, di un sopruso ai danni di un diverso che, purtroppo, accade spesso. A me, però, interessava sperimentare più linguaggi e indagare quel meccanismo di violenza che fa di una persona un capro espiatorio. Volevo capire non perché succede, ma come succede. C’è un paesaggio sonoro molto presente, vengono proiettati disegni infantili, attribuiti a Tano e che ho fatto io. Prima interpreto lui, poi cominciano ad entrare altre voci: sono la sorella che lo va a trovare quando ormai è sul lettino dell’obitorio, il medico che lo ha in cura, i poliziotti”.

Siamo sempre nell’ambito del teatro di narrazione? (a qualcuno, come è già capitato, verrebbe voglia di definirlo teatro civile…)

“No, questo è uno spettacolo anti-narrativo, è un esempio di post-narrazione, come se l’attore non avesse più la possibilità di raccontare la storia per intero: il racconto è spezzato, pieno di luoghi oscuri. Purtroppo l’aggettivo civile è spesso appiccato al teatro di narrazione. Anche quello filodrammatico è teatro civile, il teatro è sempre un fattore di civiltà, che ha a che fare con la civis, la polis. È come se il termine civile in qualche modo assolvesse, come se bastasse avere una spiegazione politica didascalica e fosse sufficiente mettere da una parte i buoni e dall’altra i cattivi. Non sono contro il teatro civile, ma il mio non lo è, mi limito a stare dentro il ‘maelstrom’ dell’animo umano, che è aggrovigliato”.

La abbiamo vista in Kohlhaas con uno sgabello e nient’altro; anche qui la scena è spoglia, fatta eccezione per i disegni. Questo per dire che non serve tanto quando c’è la parola?

“Sì, anche se qui c’è qualcosa in più, perchè mi muovo. All’inizio sono il personaggio, non parlo in terza persona di Tano perché io sono Tano; poi però la luce cambia, ci sono stacchi luminosi e sonori, c’è una partitura che è anche una metafora di quella notte, di conseguenza non sono libero di andare dove voglio”.

Questo spettacolo è antecedente ai fatti che hanno coinvolto Stefano Cucchi, ma si intreccia alla sua storia, tanto che Ilaria Cucchi sarebbe dovuta essere presente alla serata e all’incontro. Come è nato questo rapporto?

“Non mi sono ispirato alla vicenda di Cucchi, lo spettacolo è nato prima di quel tragico episodio, purtroppo ce ne sono a bizzeffe di violenze di quel tipo. Si tratta di uno spettacolo universale che inevitabilmente richiama una vergogna di cui siamo venuti a conoscenza grazie al coraggio di Ilaria Cucchi”. 

Il comico, chiave per affrontare i classici

LA STAGIONE DEI TEATRI 2023-2024

In occasione de 7 contro Tebe, in scena  per La Stagione dei Teatri 2023/2024 sabato 17 febbraio alle 21:00 al Teatro RasiFederica Ferruzzi ha intervistato Giovanni Guerrieri.

I Sacchi di sabbia nascono a Pisa nel 1995 e nel panorama della scena teatrale italiana si distinguono per la capacità di far incontrare tradizione popolare e ricerca culturale, spingendosi di volta in volta nell’esplorazione creativa di terreni diversi, dalla letteratura al cinema, dal fumetto all’opera.

Con questo spettacolo raccontate una delle tragedie più antiche utilizzando una chiave comica, che è poi la vostra cifra: cosa significa, per i Sacchi di sabbia, fare teatro?

“Il comico non lo scegli, te lo trovi addosso anche per caratteristiche attoriali, che fanno parte del Dna della compagnia. Come Sacchi di Sabbia abbiamo una fisionomia da circensi, da comici dell’arte, e ci siamo ritrovati questa peculiarità come bagaglio, prima di tutto umano, successivamente tecnico. È diventato il nostro tesoretto con cui abbiamo affrontato testi che in un determinato momento ci dicevano qualcosa. Abbiamo anche scritto, per il teatro, ma negli ultimi anni ci siamo dedicati alle rivisitazioni. Quando scrivi un testo tuo, ovviamente, dici quello che vuoi, mentre quando operi una rivisitazione, quello che vuoi dire ti scappa. Misurarsi con un’antica drammaturgia permette, prima di tutto, di conoscere cose che non si sapevano e, in seconda battuta, di proporle al pubblico. È questa la ragione per cui facciamo teatro. A volte il comico demolisce, è cattivo, altre, però, sa fungere da custode. Poter creare empatia attraverso una chiave comica su un testo come ‘7 contro Tebe’ non significa demolirlo, o farne una parodia, ma cercare un sentiero parallelo che avvicini lo spettacolo ad un pubblico contemporaneo. La soddisfazione più grande è quando i giovanissimi lo vedono e ridono, ma oltre alla risata riescono a trattenere anche qualcosa della poesia di Eschilo”.

‘7 contro Tebe’ è il terzo tassello di un lavoro portato avanti insieme a Massimiliano Civica: qual è la genesi del progetto e cosa ha portato all’opera questa collaborazione?

“Con Massimiliano ci siamo trovati nel 2016 per celebrare il festival Inequilibrio, di Fondazione Armunia, e abbiamo scelto un ambito, il mondo antico, in cui lui potesse farci da guida. Così è stato sia per ‘Dialoghi degli dei’, sia per ‘Andromaca’, mentre su ‘7 contro Tebe’ siamo stati più autonomi, pur avendo condiviso l’intera trilogia che nasceva da un percorso comune. Massimiliano è stato in grado di infonderci una scossa. Fino a quel momento eravamo concentrati su testi minori, come dimostra lo spettacolo ‘Sandokan, o la fine dell’avventura’, che ha segnato l’inizio di quel percorso ed era rivolto, in prima battuta, ad un pubblico adulto. Avevamo bisogno di cambiare rotta, di un iniziatore che ci conducesse in un mondo antico, e per noi Massimiliano è stato questo”.

In che modo, attraverso i classici, possiamo leggere l’oggi?

“Veniamo disabituati a ‘pescare’ la complessità delle storie che, proprio perchè ti intrigano e sono articolate, ti obbligano ad un lavoro che è fondamentale nel processo formativo di uno spettatore. Anche se, apparentemente, queste opere sembrano non rappresentare il presente, ci troviamo di fronte ad una modalità di porre i grandi problemi che è universale. Ad esempio, in questo testo emerge tutta la complessità degli antichi a partire dalle sinestesie: Eschilo ‘vede’ i rumori, aspetto che colpisce e scuote lo spettatore. Scatta un’intelligenza emotiva che, secondo noi, contribuisce a rendere attuali questi grandi capolavori, indipendentemente dall’argomento che trattano. In più in questo caso si parla di guerra, tema purtroppo attualissimo”.

Il giorno successivo, il 18 febbraio, porterete in scena lo spettacolo Sandokan, o la fine dell’avventura al Teatro Socjale, consigliato anche ai più piccoli. Com’è esibirsi per un pubblico adulto e com’è, invece, farlo per i bambini?

“Abbiamo iniziato ad esibirci per un pubblico adulto, che è certamente più competente. Nello specifico lo spettacolo ha debuttato al Festival ‘Primavera dei Teatri’ di Castrovillari, davanti a spettatori di teatro contemporaneo, capaci di cogliere tante sfumature, con un bagaglio di visione sconfinato. Ricordo, per dire, che c’era anche Franco Quadri. Inizialmente non avevamo pensato ai bambini, ma loro ci hanno aperto un mondo. Lo spettacolo è gioco allo stato puro, e quando va in scena si divertono allo stesso modo il compianto Franco Quadri e il bimbetto delle elementari. Quando ci esibiamo davanti ai piccoli abbiamo la serenità di non essere a cospetto di un giudice, cosa che il teatro dovrebbe un po’ ritrovare”.

Una curiosità: cosa scrisse Franco Quadri?

“Ci fece un titolone su Repubblica, ‘Gli ultimi Fuochi di Sandokan’, e quell’anno, era il 2008, vincemmo anche il Premio Speciale Ubu. Questo spettacolo ha compiuto un percorso anomalo, che è nato in quel contesto, ma che ha continuato la sua vita fuori, nell’ambito del teatro per ragazzi e per famiglie”.

Antonio e Cleopatra, “una favola che però è più vera del vero”

LA STAGIONE DEI TEATRI 2023-2024

In occasione di Antonio e Cleopatra, in scena  per La Stagione dei Teatri 2023/2024 da giovedì 25 a sabato 27 gennaio alle 21:00 e domenica 28 alle 15:30 al Teatro Alighieri, Federica Ferruzzi ha intervistato Valter Malosti, attore e direttore di ERT / Teatro Nazionale.

Dopo il debutto a Modena, e dopo gli spettacoli a Bologna, Valter Malosti porta il teatro di Shakespeare a Ravenna: una versione sfoltita del 50%, rispetto al testo originale, che promette di portare tutta l’essenza di Shakespeare al grande pubblico.


Malosti, come diceva Calvino, “Un classico è un testo che non ha mai finito di dire quello che ha da dire”: cosa ci dicono, oggi, Antonio e Cleopatra? Cosa fa dire, a loro, la sua regia?

“Antonio e Cleopatra è un classico, ma è sconosciuto: in genere il pubblico ha nella mente la figura di Cleopatra, chi è pratico di storia romana conosce il periodo legato a Marco Antonio, a Cesare, ma nell’immaginario collettivo esiste solo la figura della protagonista (qui interpretata da Anna Della Rosa, ndr). Il testo è complesso e Shakespeare, per scriverlo, prende spunto da due libri: La vita di Antonio, scritta da Plutarco, ne Le vite parallele, e Iside e Osiride. Emerge quindi una sorta di figura mitologica che, come sottolinea Enobarbo, un personaggio praticamente sconosciuto in Italia, ‘anche i santi e i sacerdoti benedicono quando pecca di lussuria’. Cleopatra mette insieme sacro e profano e l’eros è l’elemento principe di tutto il testo: per il pubblico si tratta di una estrema storia d’amore, pazza e libera. Come dice Nadia Fusini, per Antonio l’incontro con Cleopatra rappresenta una sorta di scoperta di sé, perché attraverso lei diventa se stesso”.

Il pubblico come lo ha accolto?

“Si tratta di un testo apparentemente molto popolare: in queste prime uscite tra Modena e Bologna abbiamo registrato un largo riscontro, è piaciuto a tutte e a tutti. È un testo molto diretto, popolare, ma al suo interno ci sono tante correnti sotterranee”.

Lei stesso è in scena nei panni di Antonio: qual è il contributo che dà a questo personaggio?

“La figura principale è indubbiamente quella di Cleopatra e solitamente gli attori italiani sono i primi a non voler vestire i panni di Antonio, in quanto è ritenuto un personaggio ‘tinca’ perché, così come il pesce, non sa di molto. Invece io lo ritengo un buffone tragico, una figura che permette di rendere estremo il pensiero. L’aspetto metateatrale, nel testo, è molto evidente, al punto che Antonio e Cleopatra sembrano due attori di Bernard, che si rinfacciano le cose in scena. Shakespeare era avanti anni luce: per lui la relazione con il pubblico è diretta, racconta una favola che però è più vera del vero. La cosa buffa che ho scoperto è che, avendo lavorato molto su Sogno di una notte di mezza estate, ho trovato parecchie parti in comune. Quando Antonio si dispera, ad esempio, sembra quasi Bottom, nonostante in lui viva anche una parte di Oberon”.

Antonio e Cleopatra è un’opera è molto partecipata: come è riuscito a operare questa riduzione?

“È stato un adattamento hard, ho tagliato quasi il 50% del testo, non sarebbe stato possibile fare altrimenti, lo spettacolo sarebbe durato 5 ore. Ritengo abbia fatto bene, al testo, essere sfoltito. Una cosa che ho evitato è stata quella di creare dei doppi: ogni attore fa un solo ruolo, un aspetto che sicuramente rende più difficile l’adattamento. Ne emerge un’opera scabra, quasi scultorea, che semplifica ma non lede le caratteristiche del testo”.

Tecnicamente l’opera di Shakespeare è una tragedia, ma pare che qui i registri si incrocino con grande facilità…

“Assolutamente: Shakespeare scrive in totale libertà, a lui non interessa rientrare in un genere, il tutto sta insieme e si tiene miracolosamente. Non c’è, per forza, un significato esposto, è l’insieme delle cose a darci la somma del tutto”.

Ettore Bassi: “Il Teatro? Una costola della vita”

LA STAGIONE DEI TEATRI 2023-2024

 

In occasione di Trappola per topi, in scena  per La Stagione dei Teatri 2023/2024 da giovedì 11 gennaio a sabato 13 gennaio alle 21:00 e domenica 14 alle 15.30 al Teatro Alighieri, Federica Ferruzzi ha intervistato Ettore Bassi, attore e protagonista di questo nuovo debutto.

 

Volto televisivo degli anni ’90 – in molti ricorderanno il maresciallo Andrea Ferri, protagonista della serie tv Carabinieri – Ettore Bassi ha coltivato, in parallelo, la passione per il teatro che oggi lo porta a debuttare, a Ravenna, nello spettacolo Trappola per topi diretto da Giorgio Gallione.

Bassi, lei ha iniziato lavorando come attore e conduttore televisivo, frequentando anche il cinema. Quando ha incontrato il teatro?

In realtà è successo abbastanza presto: era il 1994, è stato un primo spettacolo con Enrico Maria Lamanna, poi due anni dopo ho debuttato con Uno sguardo dal ponte, insieme a Michele Placido, un vero debutto teatrale che ha aperto una strada soprattutto in me. Quella è stata la conferma che il teatro, pur avendo avuto un breve percorso di formazione teatrale, sarebbe dovuto essere presente nella mia strada.

Tra teatro, cinema e tv, chi vince?

Dipende dalla storia, dal tipo di avventura che viene proposta. Sono forme diverse di rappresentazione, anche dal punto di vista tecnico, ma tutte ugualmente affascinanti e complesse. La differenza la fa la storia, il personaggio da interpretare.

A proposito di personaggi, lei ne ha interpretati diversi: ce n’è uno che le è rimasto addosso?

Sono rimasto legato ad un personaggio che forse pochi ricordano, il pediatra Corrado Milani di Nati ieri, una serie tv a cui ho voluto molto bene, ma che è stata sfortunata non certo per ragioni di qualità. In quel contesto ho fatto tante ore di tirocinio in ospedale, nel reparto di Neonatologia. Poi non posso non citare la serie tv Chiara e Francesco, in cui ho indossato i panni di San Francesco, ma ricordo con affetto anche Giorgio Piromallo nella mini serie insieme a Beppe Fiorello, dove ho avuto la possibilità, non scontata, di giocare con il mio personaggio e di poter esprimere la mia creatività.

Oggi debutta a Ravenna con un classico di Agatha Christie: che rapporto ha con questa autrice?

Questa autrice mi ha sfiorato diverse volte, tra l’altro il traduttore della Christie in italia, Edoardo Erba, è un amico. Sono molto contento e curioso di confrontarmi con questo testo e con il mio personaggio, nell’ambito di una trama scritta da un caposaldo della letteratura gialla.

A Londra questo spettacolo va in scena all’Ambassador ininterrottamente da 70 anni, e ogni volta miete successi. Cosa lo rende attuale?

È lo stesso meccanismo che rende attuale Odissea e tutti i classici, come ad esempio Il Gattopardo. Queste opere sono eterne, riguardano tutti e sempre. Sono scritte con sapienza, attenzione e un’epica in grado di far immedesimare lo spettatore in ogni momento della vita.

Nel 2017 comincia a lavorare come insegnante in varie scuole di formazione per attori: come trova le nuove generazioni, quali sono, oggi, le aspirazioni di chi si approccia a questo mondo?

Sono aspirazioni di vario genere: spesso molte persone cavalcano l’onda dell’illusione, perché questo mondo viene rappresentato attraverso i media e i social come qualcosa che offre rapido successo ed esposizione anche con poche competenze. Molti aspiranti attori sono illusi, trovo che quasi tutti abbiano un distacco quasi totale con la consapevolezza di sé. Molti sono disabituati rispetto alla percezione del proprio corpo e del proprio sentire: non camminano, quindi cerco di compiere un percorso che li faccia partire dall’inizio molto più di quanto abbia fatto io anni fa. Per questo, spesso, cerco di disilluderli: quello che mi interessa è la formazione più profonda, quella che si sostanzia. La situazione è abbastanza preoccupante, anche se questo aspetto si coniuga ad un’enorme facilità di approccio rispetto a materie che entrano nella nostra quotidianità e di cui si parla tutti i giorni. Quello che serve è un luogo in cui rimettere in ordine le cose, ed è per questo che ho iniziato ad insegnare: il mio obiettivo non è formare attori, la recitazione è una costola della vita. Grazie al teatro si vive meglio perché ci si conosce meglio, si è più utili al mondo e a sé stessi.

“La trasparenza totalitaria”, recensione su “Il Terzo Reich” di Romeo Castellucci

LA STAGIONE DEI TEATRI 2023-2024

 

In occasione de Il Terzo Reich, in scena  per La Stagione dei Teatri 2023/2024 venerdì 15 dicembre 2023 alle ore 21:00 e sabato 16 dicembre 2023 alle 17:00 e alle 19:00, al Teatro Rasi, proponiamo la recensione di Federico Ferrari “La trasparenza totalitaria” sullo spettacolo di Romeo Castellucci, pubblicata su antinomie.it.

 

Quando negli anni Trenta Victor Klemperer lavora al suo monumentale LTI (Lingua Tertii Imperii), analisi di sconvolgente acutezza delle storture semantiche e delle forzature linguistiche messe in atto dal Terzo Reich sulla lingua tedesca, l’Europa è sprofondata in una delle fasi più acute di diversi totalitarismi, da quello di stampo fascista a quello sovietico. Anzi, si può dire che Klemperer, attraverso una forma di filologia politica, mostri la genesi del totalitarismo, cioè di quella forma politica onnipervasiva che, nella sua visione totalizzante dell’esistente, arriva a minare la struttura stessa della comunicazione, portando la dimensione politica all’interno stesso della lingua. Lo stravolgimento della lingua quotidiana, l’affermazione di parole d’ordine incentrate sul Volk, la dimensione simbolica delle parole, fino alla tipizzazione dei caratteri, si configura, nelle pagine dei taccuini di Klemperer, come una forma estrema di ristrutturazione dello spazio pubblico e del suo senso. I totalitarismi novecenteschi sono l’estremo nostalgico esperimento di una rifondazione di senso, nello spazio nichilistico della società tardo ottocentesca e primo novecentesca. In fondo, l’allora cinquantacinquenne filologo ebreo, estromesso dall’università e non incluso nelle liste per la soluzione finale solo perché sposato a una ariana, registrava i segni o i sintomi di una battaglia per l’affermazione di una nuova dimensione del senso all’interno della più profonda e strutturante delle dimensioni metafisiche, il linguaggio. Martin Heidegger, negli stessi anni, aveva creduto di poter combattere la medesima battaglia all’interno del linguaggio, proprio accodandosi al nazionalsocialismo, visto come ultimo baluardo possibile al nichilismo. Il totalitarismo novecentesco è questo estremo e nostalgico tentativo.

Assistendo allo spettacolo di Romeo Castellucci, dal titolo Il Terzo Reich, ispirato in parte al testo di Klemperer, si ha la sensazione che gli anni Trenta siano, per tanti versi, dietro di noi ma, per alcuni, davanti a noi. In modo martellante ed estremamente irritante, su uno schermo nero, scorrono la quasi totalità dei sostantivi della lingua italiana, circa quattordicimila parole. La musica di Scott Gibbons fa assumere al ritmo di apparizione e scomparsa delle parole un senso vertiginoso. L’occhio riesce a fatica a riconoscere i lemmi. Lo spettacolo è frastornante. Si resta, dapprima, incollati con gli occhi allo schermo, cercando di afferrare il maggior numero di parole possibili. Ma lo sforzo per stare al ritmo fa montare un senso di insofferenza, che aumenta sempre più con il passare dei minuti. Il livello d’attenzione fatica a mantenersi. Lentamente, ma inesorabilmente, si cede. Le parole diventano segnali luminosi. Quasi immagini prive di significato. Ci si fissa, talvolta, su alcune lettere. Si arriva sino a provare un certo piacere estetico per la forma della parola. Ma tutto scorre. Ci si arrende. Si lascia che le parole si svuotino di significato. Si è quasi anestetizzati. Non c’è più alcun senso. L’intero insieme dei sostantivi si fa evanescente. Il linguaggio è svuotato di ogni sostanza. Si resta pietrificati e anestetizzati spettatori passivi di uno spettacolo senza senso.

Castellucci, come spesso gli accade, crea immagini, anzi, visioni. Anche questa volta riesce, in modo ossimorico, a rendere visibile l’invisibile totalitarismo dei nostri anni: il martellante flusso di significati che svuota di senso ogni cosa. Un totalitarismo della comunicazione globale e permanente che vorrebbe definire ogni cosa, rendere ogni cosa a una sua identità separata e definita, ma che ottiene o persegue esattamente il risultato opposto: nulla ha più senso per eccesso di significato, per eccesso di informazione, per eccesso di velocità del flusso di immagini che ci colpisce senza tregua. 
Il totalitarismo degli anni a venire sarà quello che già muove i suoi passi nella rete infinita, capillare e sempre più potente dell’informazione, cioè, di una parola ridotta a puro mezzo, veicolo di notizie. Un totalitarismo dai caratteri diametralmente opposti a quelli novecenteschi. Quello era un totalitarismo oscurantista, il nostro un totalitarismo dell’eccesso di luce, un totalitarismo della trasparenza assoluta.
Il prologo dello spettacolo mostra una sorta di scena primaria, di danza rituale che porta una figura spettrale a spezzare, con impietosa forza, una colonna vertebrale umana. Una volta spezzato il corpo umano, ciò che lo regge, non c’è più testimone. Per qualche minuto, la colonna resta illuminata ai piedi dello schermo. Poi, senza che nessuno vi presti davvero attenzione, cade nell’ombra. Non solo non c’è più alcuna figura umana, ma nemmeno la traccia della sua messa a morte. Non resta che il flusso intangibile di parole prive di significato, parole disincarnate, pura virtualità. Non resta che l’estetizzazione anestetizzante del linguaggio.

Parola senza corpo ma anche parola senza estasi possibile. Solo l’inutile affannarsi dello sguardo nel tentativo di afferrare un significato che immediatamente scompare, soppresso da quello successivo. Flusso inarrestabile che tutto travolge. Alla fine, alla fine di tutte le parole, non resta che il buio, la notte più profonda del senso. Forse è proprio nella profondità di questa notte, in questa oscurità senza più suoni né luci che occorre cercare per trovare vie di fuga e di resistenza al flusso ininterrotto e distruttore. Forse in questa tenebra, che si pone agli antipodi dello spettacolo iperluminoso del nuovo totalitarismo, si dà ancora o di nuovo la possibilità di un’altra luce, di una luce nera e resistente, fatta di carne e di corpi, dove la dimensione del senso è ancora possibile. O forse no. Forse siamo tutti così accecati da non vedere più la gabbia che ci contiene. Forse pensiamo davvero, in una forma di euforia da shock, di essere liberi sotto il giogo della più totalizzante delle forme sociali che la storia dell’umanità abbia conosciuto.