Tag: Ottantanove

Il lato oscuro della Storia

FÈSTA 2021
OTTANTANOVE DI FROSINI/TIMPANO
martedì 7 dicembre 2021 ore 21.00, ARTIFICERIE ALMAGIà

In occasione di Ottantanove, per Fèsta (a cura di E Production e Ravenna Teatro), ripubblichiamo l’articolo di Elvira Frosini e Daniele Timpano, apparso sul numero 21 dello speciale di Domani «DopoDomani» del 12 Ottobre 2021.

Fotografia di Ilaria Scarpa

Le origini della democrazia e il colonialismo dentro di noi. Due facce di una questione aperta.

“ELVIRA – Lo vedi come sono ridotti? Hanno fatto un disastro a casa loro e poi vengono qua. Addio Africa!
DANIELE – Si, va bene, vengono qua a ubriacarsi, pisciano sui portoni, ma non è colpa loro. Questi africani egiziani arabi cinesi indiani pachistani senegalesi marocchini uzbeki, sono così, poveracci. Non è colpa loro.
ELVIRA – È che non sono intelligenti come noi, l’ha detto pure il barista sotto casa.
DANIELE – Sì, proprio non ce l’hanno nel dna, non ci arrivano.
ELVIRA – Hanno un problema con la modernità.
DANIELE – È vero.
ELVIRA – “I Negri d’Africa non hanno ricevuto dalla natura nessun sentimento che si elevi al di sopra della stupidità”
DANIELE – Sempre il barista sotto casa?
ELVIRA – No, Immanuel Kant. E poi sono ingovernabili, “Moriranno sempre di fame. Sempre. Sono destinati. Se qualcuno non li governa, non ce la faranno mai”.
DANIELE – Anche questo è Kant?
ELVIRA – No, è mia cugina Veronica. “Si ostinano a non entrare nella storia”. “Zoologicamente e non storicamente sono uomini. Si cerca di addomesticarli e addestrarli, ci si sforza di svegliarli ad uomini, è ciò che si chiama l’incivilimento dei barbari e l’umanamento dei selvaggi”.
DANIELE – Ma tua cugina è filosofa?
ELVIRA – No, questo l’ha detto Benedetto Croce. E poi sono corrotti, violenti, si ammazzano tra di loro, c’hanno i dittatori. Per loro la vita mica vale come per noi. Per loro la vita non vale niente. Sono abituati a morire.
DANIELE – Sempre Croce?
ELVIRA – No, mio papà. “Ai negri non viene neppure in mente di aspettarsi per sé quel rispetto che noi possiamo esigere dal prossimo”. Hegel.
DANIELE – Hegel?
ELVIRA – “Per natura elemento barbaro ed elemento servile sono la stessa cosa”.
DANIELE – Sempre Hegel?
ELVIRA – No, Aristotele. “Ma guardali Non hanno voglia di lavorare, come i napoletani, i calabresi, i siciliani, sono simili. Uguali”.
DANIELE – Dai, questo però è il mio papà…
ELVIRA – No, l’ha detto Rousseau. Insomma sono RAS.
DANIELE – Ras come i Rasta, i Ras abissini, Ras Tafari…?
ELVIRA – No R-A-S. È un acronimo. Ridotte Attitudini Sociali. RAS. Mio padre aveva un ragazzetto che lavorava per lui, un tuttofare che si arrangiava a fare tanti lavoretti. Scuro scuro di carnagione, del suo paese vicino Roma. Burinozzo. Beh lo chiamava il Ras.
DANIELE – È tutta colpa del colonialismo!
ELVIRA – E che è?
DANIELE – Boh.
[da Acqua di colonia, 2016]

Fotografia di Ilaria Scarpa

 

Siamo al bar, come tanti, a prendere l’aperitivo, e passano intanto quelli che ti vendono gli accendini, gli oggettini, afrodiscendenti, africani, asiatici, uomini e qualche volta donne. Tu non li vedi bene, cerchi di ignorarli, cerchi di non sentire il tuo fastidio, ti senti in trappola tra il tuo fastidio e il tuo senso di colpa. Sì, perché tu ti senti una vittima e nello stesso tempo parte di un mondo ingiusto, hai i tuoi problemi, grandi e piccoli, e non è che puoi farti carico di tutte le ingiustizie. E poi da sola che cosa puoi fare? Dietro tutto c’è un rimosso, sempre. Si rimuove tutto. Si rimuovono le domande: perché siamo così? Perché guardiamo e pensiamo il mondo così?

E intorno a te, dietro e davanti, in questi anni, ci sono le cose che accadono, il flusso di migranti in aumento, il mare diventato una tomba, la costruzione della paura di quelli che arrivano, la costruzione di onde emotive collettive che oscillano invariabilmente tra la paura e la commozione. E poi il Black Lives Matter, il discorso sul colonialismo e post-colonialismo e neocolonialismo, i tentativi di aprire discorsi sulla decolonizzazione dei corpi, della cultura. E poi l’Europa, che percepisci immobile e impaurita, i muri costruiti, i patti per arginare i flussi migratori. L’Europa – e l’Italia in cui sei nata – nella cui cultura “democratica” sei cresciuta, con le sue democrazie e i suoi principi. La vedi là, circondata di campi profughi, di detenzione, abusi e torture, che fa finta di niente, mentre continua a pensarsi come il baluardo dei diritti universali. E senti uno stridore ed uno svuotamento. La politica non ti parla, non pensa un mondo nuovo ma tende a mantenere questo come il migliore e l’unico possibile. La politica, che non ha più sogni ed orizzonti da proporre. La nostra epoca, nata con l’abbattimento di un muro (il muro di Berlino, 1989), costruisce di nuovo muri.

“A- L’Europa! Che meraviglia. Un modello per il mondo. Così credevo da bambina. Tutto nasce allora. Coi Lumi. Con la Rivoluzione. È come un’infanzia. È la che nasce il mondo, questo, in cui viviamo. È un po’ tutta un’infanzia e una giovinezza lontana, la nostra, che ci raccontano. Ce la raccontiamo. Che l’infanzia te la racconti con gli occhi di adesso, la avvolgi di una luce dorata, di tristezza, e malinconia, e di eroismo e di gloria. Ti ricordi quando hai preso l’autobus da solo per la prima volta per andare a scuola, o quella volta che hai salvato tuo fratello piccolo che era caduto in una fontana…
C – E allora andiamo a scavare in questa infanzia, in questa rivoluzione, in questa archeologia di democrazia, riportiamo alla luce qualche scavo. Qualche reperto. Qualche pezzo di muro. Sì. Pezzi di macerie, di muri crollati, o pezzi di muri in costruzione. Stiamo in piedi su macerie, come su piedistalli. Ecco, questo è un pezzo di muro della Bastiglia, 1789.
A – È un pezzo di Muro di Berlino, 1989.
B – Un pezzo di muro delle Tuileries, la Convenzione, distrutta durante la Comune di Parigi, 1871.
C  – Un pezzo di muro delle Torri Gemelle di New York, 2001.
B – Un pezzo di muro di una casa di Aleppo in Siria.
A – Un pezzo di muro del sito di Palmira.
C  – Un pezzo di muro degli Stati Uniti al confine con il Messico.
A – Un pezzo di muro di Ventimiglia, del Brennero, del confine dell’Ungheria, della Turchia, un pezzo di muro di casa mia, a Roma, che cade a pezzi. Un sampietrino de Roma, che ce lo siamo portati da Roma.
C –  Resti, reperti, ricordi che rigiriamo tra le mani, reliquie, reliquie sacre, come il sacro cuore di Marat, ecco, potremmo farci un funerale, sì, il funerale della nostra convivenza, della nostra democrazia
A,B,C – Un bellissimo funerale.”
[da Ottantanove, 2021]

Fotografia di Ilaria Scarpa

 

Torniamo quest’anno al Romaeuropa Festival con Ottantanove, un lavoro che si interroga sulla democrazia, sulla sua crisi, sulla possibilità di pensare oggi una rivoluzione, o un cambiamento. Cosa resta oggi nei nostri sistemi democratici delle aspirazioni di universalità che sono alle origini della modernità? Ottantanove si ricongiunge e continua così il discorso aperto con Acqua di colonia, presentato a Romaeuropa nel 2016, in cui era centrale il tentativo di ri-conoscere e guardare in faccia le origini coloniali e razziste della nostra cultura occidentale.
Il nostro lavoro procede sempre per domande. Domande che facciamo a noi stessi, domande implicite, questioni che rivolgiamo al pubblico, che condividiamo. E guardiamo spesso alla Storia, per far luce sul presente, sulle questioni irrisolte che viviamo oggi. Cominciamo sempre da una presa di distanza, dalla consapevolezza – o da un tentativo di consapevolezza – di dove siamo.
Da che punto – geografico, storico, culturale – stiamo parlando?
Si tratta anche – per noi – di un continuo tentativo di reagire alla semplificazione, accettando la complessità. Viviamo in un mondo non binario, non schematico, ma tutto, intorno a noi, sembra costringere – anche nei discorsi “antagonisti” – ad una lettura ottusamente conformista e identitaria, e perciò rassicurante, del presente.
Queste domande all’origine dei nostri lavori nascono dalla nostra vita, personale e collettiva.
Le domande che ci siamo posti in Acqua di colonia erano: “Siamo colonialisti? Lo siamo stati? Siamo razzisti? “. Le domande da cui ci siamo mossi per Ottantanove erano: “Cosa ne è stato della Rivoluzione? È qualcosa a cui possiamo ancora pensare? Cosa rimane oggi della Rivoluzione francese, mito fondativo della democrazia occidentale, dei diritti universali?”

 

Fotografia di Ilaria Scarpa

 

Ecco, queste questioni si rispecchiano e si rispondono da un lavoro all’altro. È stato un po’ come guardare o scavare dentro di noi, e dietro di noi, nelle due facce di una stessa questione, di un groviglio che fatichiamo a leggere.

Con Acqua di colonia abbiamo così guardato in faccia il colonialismo ed il razzismo costitutivo della nostra cultura, italiana ed occidentale. Abbiamo tentato una rivoluzione copernicana del nostro sguardo, del nostro modo di guardare il mondo. In Ottantanove parliamo dello svuotamento della democrazia, che viviamo oggi – tutte e tutti – sulla nostra pelle ed arriviamo al nodo di una contraddizione evidente e mai risolta: la pretesa di universalità e di dettare ritmi e modi della democrazia nel mondo e la sua continua negazione nei fatti, duecentotrenta anni fa come nel 2021.

Le nostre vite democratiche, i nostri corpi democratici, i nostri occhi, orecchie e pensieri democratici sono stati costruiti a partire da là. Dalla Rivoluzione. La Rivoluzione, figlia dell’Illuminismo, è alle origini delle nostre democrazie mature e stanche. La Rivoluzione ha a che fare con la nostra identità cosiddetta europea, assunta già da allora a modello assoluto di civiltà. Eh sì perché è nel ‘700, nel secolo dei lumi e della Rivoluzione, che si precisa e teorizza – e mette in pratica – l’idea che sia l’Europa (l’Occidente) a dettare tempi e modi al mondo: economicamente (con l’industrializzazione), socialmente (con la modernizzazione), politicamente (con la democratizzazione), culturalmente (con la secolarizzazione). Da allora a dominare il mondo siamo noi. Un “noi” che è forse un po’ più Stati Uniti, Francia, Germania che l’Italia ma che è pur sempre un “noi” e non un “loro”: la parte giusta della barricata contro la barbarie, dicono, contro un mondo diventato nel frattempo forse abbastanza forte da buttarci giù dal piedistallo.

 

Fotografia di Ilaria Scarpa

 

Il nostro mondo, l’Europa, piccolo mondo antico e asserragliato su sé stesso, è un’entità contraddittoria, in evidente crisi politica e democratica, che sottrae la politica ai suoi stati, in cui domina lo stato d’eccezione, il securitarismo, il condizionamento delle costituzioni nazionali con il pareggio di bilancio, ma che continua a proclamare come suoi fondamenti identitari i diritti civili, la partecipazione, la sovranità popolare, la separazione dei poteri, la cittadinanza, le libertà di stampa, riunione, culto, associazione, la democrazia. Idee che conosciamo, le riconosciamo, sono i nostri più alti valori, ci ripetono ogni giorno, ciò che farebbe l’Occidente ancora oggi superiore rispetto al mondo sinora (e tuttora) dominato. Concetti nati durante la Rivoluzione e in essa già traditi, ancora oggi sbandierati e utilizzati in qualunque discorso pubblico europeo, nonostante suonino ormai svuotati di senso, di sostanza, come gusci vuoti lasciati sulla spiaggia. Cose nate allora la cui carcassa ci ritroviamo oggi tra i piedi, ma svuotata di ogni contenuto, come le mummie imbalsamate degli egizi, con tutti gli organi chiusi in un vaso canopo – la milza, gli intestini, il cuore, il fegato – e la vuota forma del corpo glorioso che fu, tuttora affascinante e persistente come un deodorante, ormai definitivamente morta.
Che fine ha fatto, non diciamo la vita, ma almeno il canopo?

 

Fotografia di Ilaria Scarpa

 

Questo testo è il primo che abbiamo scritto per Ottantanove, contiene un’evocazione di immagini della Rivoluzione francese.

Ricordare. La cipria, le parrucche, i balli a corte, le candele, il clavicembalo, gli automi meccanici, Voltaire, Rousseau, Diderot, D’Alembert, Oscar François de Jarjayes, e le calze, le culottes, gli amori di Maria Antonietta col Conte di Fersen, lo scandalo della collana, il popolo ha fame dategli le brioche e poi Parigi, la Bastiglia, e primo, secondo e terzo stato (ma non il quarto), i berretti frigi e i sanculotti, le picche, le coccarde, le bandiere, le teste sulle picche, e cittadino, e cittadina, i giacobini, la Gironda, la Palude, la Montagna, l’Illuminismo, la Ragione, i discorsi per la strada, alla tribuna, dal balcone, e Robespierre, Danton, Saint-Just, la Convenzione, il Re ghigliottinato, Marat ucciso nella vasca, Jacques-Louis David, la Pallacorda, i diritti dell’uomo (ma non della donna, né dell’uomo o donna negri) e il Ça ira, la Carmagnole, la Marsigliese, il Direttorio, e poi l’abolizione della schiavitù, e il ripristino della schiavitù, la rivoluzione nelle Antille, e Haiti indipendente, prima repubblica nera nella storia, e poi brumaio, frimaio, termidoro, messidoro, fruttidoro, germinale, vendemmiaio e tutti i mesi del calendario rivoluzionario, e la Costituzione, la Dea Ragione, l’Essere supremo, le repubbliche sorelle, Foscolo in esilio, Napoleone, Campoformio, Vittorio Alfieri, Vincenzo Monti, la Repubblica di Napoli, la Repubblica Romana, la Repubblica Batava, Transpadana, Cispadana, Subalpina, Cisalpina, Cisrenana, Anconitana, la Repubblica Ligure, Elvetica, Astese, e gli alberi della libertà, il Papa arrestato e deportato e morto in Francia, e Lavoisier, i Montgolfier, Alessandro Volta, Fahrenheit, Linneo, e poi assemblea, democrazia, libertà, voto, popolo, Terrore, terrorismo, ghigliottina e teste mozze, teste mozze, teste mozze, teste mozze. “Liberté, Egalité, Sexualité”.

Lo abbiamo letto su una vetrina di Gucci a Parigi in centro.
[da Ottantanove, 2021]