Approfondimenti

Il corpo del narratore

La Stagione dei Teatri 2021/2022
Pianura, di e con Marco Belpoliti, regia di Marco Martinelli
18-20 febbraio 2022, Teatro Rasi

PRIMA NAZIONALE

In occasione del debutto di Pianura venerdì 18 e sabato 19 febbraio 2022 per La Stagione dei Teatri 2021/2022, che sarà anche l’occasione per vedere le trasformazioni del Teatro Rasi dopo sette mesi di ristrutturazioni, vi proponiamo le note di regia di Marco Martinelli.

 

Il corpo del narratore

 

Pianura, è stato scritto, è un’autobiografia corale. Marco Belpoliti vi si racconta attraversando, nel tempo e nello spazio, il mondo che sta da millenni al di qua e al di là del grande fiume: l’aceto balsamico, la centuriazione degli antichi romani, i pioppeti e le golene, le anguille che impavide solcano l’oceano, le cattedrali con i loro santi e i loro mostri, i pispiò, e tanto altro. Nebbia e speleologia: un viaggio che ha il suo epicentro intimo nella Reggio Emilia (per secoli Reggio di Lombardia) che ha dato i natali al viaggiatore, e che si snoda da Milano a Rimini, intrecciandosi alle vite di altri artisti e studiosi incontrati lungo la via, in un mosaico che è il mosaico di una intera esistenza.

Per anni l’inclinazione enciclopedica di Marco ha tenuto in ombra il romanziere: Pianura rimette le cose a posto. Marco Belpoliti è un romanziere prestato alla riflessione antropologica – si pensi, tra i tanti illuminanti saggi, al Corpo del capo, sulla metamorfosi della politica in Italia – al giornalismo, alla critica letteraria – Calvino e Levi soprattutto – alla creazione di riviste e progetti, da “Riga” a doppiozero.com: ma, al fondo, è soprattutto un innamorato delle storie, delle storie che fanno, che sono la vita e gli intrecci tra le vite, cartografo febbrile di saperi e di voragini come Adamo Vir, come Italo, i protagonisti dei romanzi da lui pubblicati negli anni Ottanta, pervasi da un fondo di misteriosa, indecifrabile malinconia.

Se la scrittura è sequenza di parole su carta, il teatro è corpo. Al centro di questa “lettura scenica” di Pianura – selezione e montaggio di alcuni capitoli del fluviale romanzo da cui prende il nome – vi è il corpo del narratore, incorniciato in una partitura di immagini e musiche, da Giuseppe Verdi a Giovanni Lindo Ferretti, dal Bella ciao reinventato da Daniele Roccato alle sonorità di Marco Olivieri, fino al Bob Dylan tanto amato da Gianni Celati: alto, tanto alto, come mi è apparso da sempre, visto che ci conosciamo fin dalla prima giovinezza, con quegli arti lunghi e voraci, da piovra, metafora di carne della sua insaziabile curiosità.

Marco Martinelli

Luigi Ghirri, Roncocesi gennaio 1992. Eredi di Luigi Ghirri.

L’acustica di Auschwitz

La Stagione dei Teatri 2021/2022
Se questo è un uomo, uno spettacolo di e con Valter Malosti
3-6 febbraio 2022, Teatro Alighieri

 

In occasione dello spettacolo di e con Valter Malosti Se questo è un uomo (dall’opera di Primo Levi, pubblicata da Giulio Einaudi editore) vi suggeriamo la lettura del testo L’acustica di Auschwitz di Domenico Scarpa, curatore insieme a Malosti della condensazione scenica dell’opera di Levi. Il testo è stato scritto in occasione del debutto dello spettacolo e pubblicato insieme a altri materiali editoriali su I Quaderni del Teatro Stabile di Torino (Edizioni del Teatro Stabile di Torino, 2019).

1. Uno strano sollievo

Da oltre settant’anni Se questo è un uomo, il libro “primogenito” di Primo Levi, parla ai lettori più diversi in tutto il mondo. Oggi viene portato su un palcoscenico, di fronte al quale non ci saranno lettori bensì spettatori. Quali sono le strade che Valter Malosti e io abbiamo seguito per renderne accessibili in circa due ore le parti essenziali? In che modo abbiamo lavorato sulla voce, anzi, al plurale, sulle voci di Primo Levi?

Le testimonianza d’autore e le ricerche degli studiosi hanno mostrato che Levi giunge a intonare quella pluralità facendo ricorso a molte voci del passato: la sua memoria estetica e affettiva rielabora quelle di scrittori, di scienziati, di testi sacri. La voce ascoltata con maggiore costanza è quella di Dante. Perciò, possiamo raccontare il modo in cui siamo arrivati a costruire la nostra «condensazione scenica» di Se questo è un uomo conducendo sul testo una verifica che riguarda appunto la presenza di Dante. Qual è la prima citazione della Divina Commedia che s’incontra in Se questo è un uomo? In quale punto Primo Levi innesta per la prima volta la voce di Dante nella propria voce? La domanda è essenziale, tanto per un autore che ha deciso di raccontare Auschwitz quanto per chi si arrischia, oggi, a tentarne una sintesi destinata alle scene. La risposta alla domanda sarà differente a seconda che si legga la versione originaria di Se questo è un uomo, uscita a Torino nel 1947 presso De Silva, oppure la definitiva, che ha una trentina di pagine in più e che pure è uscita a Torino, ma da Einaudi e nel 1958. È quest’ultima edizione che abbiamo scelto come base per il testo teatrale. Qui, come vedremo, la presenza di Dante è più cospicua e complessa rispetto alla prima stesura del libro. Nell’edizione del 1947 l’impronta della Commedia, rilevabile fin dal principio, è lampante nei primi capoversi del secondo capitolo, intitolato Sul fondo. Qui il celebre cancello di Auschwitz viene descritto come «una grande porta»; la trasformazione induce il lettore a decifrare, dietro la «scritta vivamente illuminata» che lo sovrasta – ARBEIT MACHT FREI –, le «parole di colore oscuro» che Dante ha iscritto sulla porta dell’inferno: PER ME SI VA NELLA CITTÀ DOLENTE. Poco dopo aver varcato quella porta-cancello Levi sarà perentorio:

Questo è l’inferno. Oggi, ai nostri giorni, l’inferno deve essere così, una camera grande e vuota, e noi stanchi stare in piedi, e c’è un rubinetto che gocciola e l’acqua non si può bere, e noi aspettiamo qualcosa di certamente terribile e non succede niente e continua a non succedere niente.

Il campo di Auschwitz che qui per la prima volta viene dipinto come un inferno è «certamente terribile», ma è un inferno moderno (la camera grande e vuota, il rubinetto che gocciola) e soprattutto insulso, noioso fino alla disperazione: «non succede niente e continua a non succedere niente». Già questo, per chi abbia letto un po’ di Dante e sappia qualcosa dei lager nazisti, non suona banale. Ma le sorprese aumentano se, immediatamente dopo, si va a leggere Se questo è un uomo-1958, da inizio libro fino a questa pagina di apertura del secondo capitolo. Eseguendo la rilettura ci si accorge che l’ultima scena del primo capitolo Il viaggio è nuova: nel 1947 non c’era. Insieme con altri uomini selezionati come lui per il lavoro forzato, Levi è salito su un autocarro che ora viaggia veloce per una strada «con molte curve e cunette». Così, nel 1947, finisce il capitolo, mentre nel 1958 si prosegue per una dozzina di righe:

Eravamo senza scorta? … buttarsi giù? Troppo tardi, troppo tardi, andiamo tutti «giù». D’altronde, ci siamo presto accorti che non siamo senza scorta: è una strana scorta. È un soldato tedesco, irto d’armi: non lo vediamo perché è buio fitto, ma ne sentiamo il contatto duro ogni volta che uno scossone del veicolo ci getta tutti in mucchio a destra o a sinistra. Accende una pila tascabile, e invece di gridare «Guai a voi, anime prave» ci domanda cortesemente ad uno ad uno, in tedesco e in lingua franca, se abbiamo danaro od orologi da cedergli: tanto dopo non ci servono più. Non è un comando, non è regolamento questo: si vede bene che è una piccola iniziativa privata del nostro caronte. La cosa suscita in noi collera e riso e uno strano sollievo.

Di citazioni dantesche ce ne sono addirittura due in questo brano aggiunto, una con tanto di virgolette (che proviene, guarda caso, dallo stesso canto III dell’Inferno dove compare la porta con le parole di colore oscuro) e l’altra, sempre dallo stesso canto, che delle virgolette non ha nemmeno bisogno perché vi domina un personaggio che tutti i lettori italiani conoscono: solo che qui «caronte» ha l’iniziale minuscola e non è uno spaventevole nocchiero con gli occhi di bragia che guida le anime dei dannati all’altra riva, fra le tenebre eterne, in caldo e in gelo. Qui «caronte» è un ladruncolo, uno che si arrangia: a suo modo, è un povero diavolo. Questo episodio che si consuma prima ancora di varcare la «porta» dell’inferno-Auschwitz produce un sussulto nell’animo dei prigionieri. «La cosa suscita in noi collera e riso e uno strano sollievo».

In Se questo è un uomo-1958, Levi e i suoi compagni sul cassone dell’autocarro si accorgono di essere capitati in un luogo che paventavano tremendo, e lo è per davvero. Ma è anche un luogo assurdo. Proprio in questo frangente Levi viene colto per la prima volta dall’impulso di citare Dante alla lettera; così, riporta tra virgolette il verso 84 dal canto III dell’Inferno perché lo sollecita – insieme con la necessità di descrivere un orrore che supera ogni possibilità di espressione – la sorpresa di essersi imbattuto nello squallore morale, nella disonestà della vita quotidiana, là dove si aspettava una malvagità senza crepe e un sadismo da inferno organizzato sul serio. Levi ha appena scoperto che i suoi carnefici sono uomini normali, che sono mediocri burocrati capaci di infliggere un male estremo: un verso di Dante lo aiuta a dirlo.

Gli uomini caricati su quell’autocarro reagiscono così – «collera e riso e uno strano sollievo» – a un istante rivelatore: in Auschwitz ci sono, simultaneamente, l’orrore e il grottesco, la morte violenta e la noia mortale. In Se questo è un uomo – 1958, tra l’ultima scena del primo capitolo e i primi capoversi del secondo capitolo, Primo Levi ce lo mostra (e lo fa entrambe le volte con l’aiuto di Dante) eseguendo un esercizio vocale di alta complessità.

2. Una «zona Se questo è un uomo»

Per restituire in pieno questa complessità in un copione che abbiamo definito «condensazione scenica», Valter Malosti e io abbiamo voluto spingerci oltre il perimetro del libro “primogenito”. Abbiamo circoscritto, entro l’opera di Levi, una «zona Se questo è un uomo» formata dal libro stesso (nella sua versione definitiva 1958), da alcune poesie scritte fra gli ultimi giorni del 1945 e le prime settimane del 1946 (in simultanea con l’opera che andava prendendo forma), infine dal primo capitolo di La tregua (che l’autore pubblica solo nel 1963, ma che scrive tra la fine del 1947 e l’inizio del 1948) e dalla sua pagina conclusiva: l’incubo di un ritorno in lager, anzi l’incubo che non esistesse e non fosse mai esistito nulla all’infuori di esso. Solo nei testi qui elencati si può ritrovare quella impostazione irripetibile di linguaggio, di tono, di atteggiamento esistenziale e culturale che è caratteristica del romanzo. Nell’opera completa di Levi la «zona Se questo è un uomo» è un modo annichilente di usare la lingua, di secernere ritmo, di piegare e troncare frasi. In seguito, lo scrittore diviene un’altra cosa, anzi molte altre cose di pari grandezza, ma non è il momento di definirle.
La «zona Se questo è un uomo» andava presentata al pubblico nella sua interezza, facendo perno sul testo principale. Difatti, questo nostro lavoro nasce dalla convinzione che il primo libro di Primo Levi sia un’opera acustica.
Con il suo orecchio acuito da un’attenzione assoluta, lo scrittore ci restituisce la babele del campo – i suoni, le minacce, gli ordini, i vocaboli gergali incomprensibili, i rari discorsi chiari e distinti – orchestrandola sulle lingue parlate in quel perimetro di filo spinato: i «barbarici latrati» dei tedeschi, lo yiddish degli ebrei orientali (lingua a lui sconosciuta prima della deportazione), il polacco della regione di Auschwitz, e poi ancora l’ungherese, il greco, l’inglese dei militari prigionieri, l’italiano dei pochi connazionali in grado di non soccombere, il francese adottato come lingua franca…

Le esperienza vissute sono accadute in molte lingue diverse, in molti gerghi particolari, ma anche – molto spesso – nel folto di una sfiancante cacofonia. La lingua in cui i fatti sono raccontati è l’italiano: un italiano illustre e affabile, più volte contrappuntato o stravolto da quel pattume sonoro. Levi riesce a preservare la comunicazione rendendo stereofonicamente percettibile il caos in mezzo al quale ha dovuto farsi strada. Vale perciò la pena, in una presentazione destinata agli spettatori, illustrare brevemente le strategie acustiche (e, di conseguenza, cognitive) praticate da Levi. Nei diciassette capitoli di Se questo è un uomo, più la prefazione, la poesia-epigrafe e gli altri testi della «zona» inclusi nel copione portato in scena, si possono cogliere molti registri e modi espressivi, narrativi, percettivi e di pensiero, con continui stacchi e scambi vicendevoli, e con molti passaggi in fusione polifonica, dentro una voce d’autore che è sempre unitaria, sempre una e salda. Il registro-base, il più semplice, è la descrizione: osservare attentamente una realtà aliena per capirla e poi trascriverla a beneficio di chi non era presente.

Un secondo registro, altrettanto semplice, è però dinamico: è il racconto lineare, un percorso lungo il quale ci si muove vedendo, ascoltando e facendo scoperte. Spesso, lungo questo percorso, Levi cambia la messa a fuoco e blocca delle figure, dei quadri plastici: si avvicina per guardare, raccontare e descrivere meglio, come se usasse la lente o il microscopio. A questa modalità s’intreccia un’ulteriore declinazione della voce, quella dei pensieri che si svolgono a partire dalle cose vedute e narrate: Levi si cala nel proprio animo, ma anche in quello dei suoi simili, vittime o aguzzini che siano. In molti punti poi (e sono fra le pagine che più toccano il lettore nell’intimo) lo scrittore riferisce sogni, suoi personali o collettivi, scendendo in profondità e riportando alla luce, con perfetto controllo, quelle immagini inafferrabili. Con uguale padronanza riesce a offrirci il punto di vista del dopo: Se questo è un uomo è stato scritto in gran parte a più di un anno di distanza dai fatti, e pubblicato solo due anni e mezzo dopo che la peripezia di Auschwitz era cominciata con le 650 persone che il 22 febbraio 1944 lasciarono il campo di Fossoli. Quella finestra temporale è stata messa a frutto per giungere, nei momenti opportuni, a parlare della propria esperienza come dall’esterno, con il distacco dello storico o del ricercatore scientifico, da un punto di vista che non è mai il banale senno del poi. Di tanto in tanto Levi formula dei commenti, arriva cioè a guardare come dall’alto il passato prossimo del lager senza perdere il contatto morale e percettivo con la propria esperienza. Tutto questo gli permette di proferire l’ultima delle sue voci, quella che si rivolge direttamente ai lettori sollecitandoli, ma mettendosi in gioco nel momento stesso in cui chiede loro una reazione: e gliela chiede con toni che possono essere molto diversi, come si può vedere rispettivamente nella prefazione e nella poesia-epigrafe del libro.

Malosti e io abbiamo fatto il possibile per salvaguardare questa polivalenza acustica, questo modo di esplorare, di raccontare, di pensare e ripensare il lager per darsene ragione e restituirne l’impressione.

3. «Oggi, questo vero oggi»

Primo Levi ha offerto due guizzi vocali notevoli, forse i più inattesi, nel capitolo Esame di chimica, quando si trova al cospetto del Doktor Pannwitz. Il lettore si aspetterebbe che si mostri concentrato senza residui, al culmine della tensione, su quella prova dirimente. E invece:

Da quel giorno, io ho pensato al Doktor Pannwitz molte volte e in molti modi. Mi sono domandato quale fosse il suo intimo funzionamento di uomo; come riempisse il suo tempo, all’infuori della Polimerizzazione e della coscienza indogermanica; soprattutto, quando io sono stato di nuovo un uomo libero, ho desiderato di incontrarlo ancora, e non già per vendetta, ma solo per una mia curiosità dell’anima umana.

E poco prima, prima di entrare a sostenere l’esame:

Oggi, questo vero oggi in cui io sto seduto a un tavolo e scrivo, io stesso non sono convinto che queste cose sono realmente accadute.

Quei «molti modi» di aver pensato più tardi – in Auschwitz dopo l’esame, fuori da Auschwitz una volta in libertà – stanno già tutti in quelle brevi pagine di racconto, compatte nell’intreccio delle loro fibre. Stanno nella concentrazione che Levi dedica alle cose che osserva e descrive, e insieme nella distanza che si prende, nel passo indietro che la sua scrittura fa a ogni momento per regolare l’ottica cognitiva, per mettere a fuoco una scena che include chi la va raccontando. «Oggi, questo vero oggi»: il dubbio istantaneo sulla verità delle cose che ha vissuto e che ricorda fin troppo bene, quello stacco dove si ripete due volte il pronome io, è l’atto di nascita di Se questo è un uomo, il momento in cui Levi conquista la posizione di voce che gli permette di scrivere la verità. In questi punti, in questi frangenti, il regista e io abbiamo trovato la conferma che, nel suo essere il più bello e il più atroce libro di avventure del ventesimo secolo, Se questo è un uomo è anche un’opera performativa, una prova di presenza che sembra pensata in anticipo per radicarsi nella voce, nei gesti, nel corpo di un attore. I suoi registri e scarti, la fusione di fatti e pensieri sui fatti che succedono, gli “a parte” meditativi, morali e perfino scientifici, perfino politici, sono altrettante opportunità per un attore, spunti per variare di postura, di voce, d’intonazione, di cadenza; occasioni per aggiungere una quantità di dimensioni, di chiaroscuri, a quella che i francesi chiamano la création di un ruolo. La voce di Levi è una voce una e plurale, ed era appropriato affidarla a un unico attore.

«Oggi, questo vero oggi»; «collera e riso e uno strano sollievo»; «molte volte e in molti modi»: opera acustica, Se questo è un uomo è anche un’opera che si può pronunziare in palcoscenico.

Foto di scena Tommaso Le Pera

 

Interviste sul boccascena

La Stagione dei Teatri 2021/2022
Boccascena ovvero Le conseguenze dell’amor teatrale, di e con César Brie Antonio Attisani (Compagnia Tiresia Banti)
27 gennaio 2022, Artificerie Almagià

 

In occasione dello spettacolo Boccascena ovvero Le conseguenze dell’amor teatrale a Artificerie Almagià per La Stagione dei Teatripubblichiamo qui di seguito un testo a cura di Roberto Cuppone, con le interviste a Antonio Attisani (“Le conseguenze dell’amor teatrale”) e César Brie (“Smettetela di prendervi troppo sul serio”).

Lo spettacolo. Fra utopia e atopia, tra favola e Storia (fra Collodi e Beckett?), due amici di un tempo che “non si vedono da tanto perché non si sono mai cercati” – uno è sempre rimasto lì, a suonare il flauto, l’altro torna forse da un viaggio, ha una valigia di maschere – si incontrano inevitabilmente per sbaglio (“meglio un teatro di un ospizio”); nel frattempo hanno avuto esperienze diverse, hanno visto “picchiare delle persone” e “la noia ferire il teatro” (sono queste le ragioni “artistiche” che hanno reso Gatto cieco e Volpe paralitica?) ma si riconoscono una missione in comune: ammazzare Pinocchio, emblema dell’attore da happy end, immemore d’essere nato di legno. Perché l’attore vero, invece, meritevole di una ballata in rima, è quello diviso, liminale alla follia (“tutto è iniziato e finito in manicomio”); e interrogandosi sulle rispettive vocazioni, tra pompierismo e superomismo, tra primo e secondo Nicce (scommetto che lo scrivo sbagliato), i due evocano il fantasma più lontano dal teatro e dalla rappresentazione: quello del suicidio – che proprio per questo è stato tema del “primo” spettacolo di Gatto, fantasma della sconfitta di una generazione, del “tutto o niente”; che subito si è fatta favola – toc toc, chi è, il saggio, l’allievo, il revenant, e poi solo danza – così finiva quello spettacolo, quella iniziazione. Se la gratitudine del pubblico sia “il salario dell’egocentrico” o “l’antidepressivo dei disperati” è il punto cui entrambi sono arrivati ora. Di tutto questo, cosa ne può capire quel burattino di Pinocchio? Il suo corpo senza organi non può recare tutte le cicatrici che invece i due si scoprono, come reduci di continue battaglie: il ricordo di Volpe di un capezzale polacco, fra memorie di maestri e diffidenze contadine, è occasione per una unzione estrema: quella del grottesco. E se la scuola dell’attore comincia da lì, dalla poca serietà della morte, neppure il suono dell’Internazionale ha ormai più nulla da insegnare: col naso di Pinocchio e i libri sottobraccio, Volpe si rivede a bottega dai suoi primi maestri, di un teatro troppo realistico per essere reale, troppo saputo per insegnare: didattico da morire… e pum! Pinocchio è sparato, nella finzione e nel ricordo. Nessun “Metodo” tramandato (“piscio di gatto che ha bevuto il vomito di un cane”) vale quanto l’insegnamento della strada; come dimostra la poesia di Tiresia Banti contro i maestri che si palestrano per fottere le allieve, tirata à la Cyrano contro il santonismo teatrale: no, merci. Anche se sesso e teatro hanno pur sempre qualcosa in comune: forse nella “prima volta” (“quando scopri il teatro scopri anche il sesso”: nei ricordi riemerge lo spettro della comune, dell’amore per forza; la figura di Suplicio, omen nomen, del suo amore troppo adulto e impronunciabile per non raccontarlo all’insaputa l’uno dell’altro); o forse in “ogni volta”, nell’accasarsi, nello sposare quella “danza silenziosa, piena di fantasmi, viva, commossa e commovente”; o forse invece quando la si dimentica, quella danza, e arriva l’oblio (“i grandi attori li vedi soprattutto nella vecchiaia, quando la luce gli viene da dentro”). Tra il sogno del bambino (“ho sposato la mia maestra”) e il risveglio dell’adulto (“mi ha falsificato la vita come si fa con la moneta”), sesso e teatro sembrano sempre e comunque lasciare segni che assomigliano a “ferite”. Raccontarle per l’ennesima ultima volta è una forma di anestesia o piuttosto di eutanasia? È mai possibile semplicemente “spegnere la luce” (come) in teatro? “Com’è diverso il suono della giostra […] quando sta per finire l’ultimo dei giri che ti hanno concesso”. Resta il tempo per l’ultimo saluto, a tutte quelle parti del corpo, a quell’arlecchino di piaceri e dolori che hanno dato fiato alla parola “Io” e adesso sembrano centrifugarsi come spettatori all’uscita da una recita; insieme per sbaglio e dunque per sempre, i due indossano i paramenti del matrimonio, velo e tight, e si allontanano nella nuova disunione sotto un cielo che piange (attrezzista permettendo).

Emozioni e sentimenti. Mentre Gatto e Volpe sciorinano ricordi che sono di César e di Antonio, tu non puoi non paragonarli ai tuoi. Ogni sapiente costruzione d’autore, ogni sanguinoso outing d’attore passa crudelmente sullo sfondo, cede il passo dentro di te all’”io c’ero!”, a quella vocina egotica che ti illude d’essere parte di una Storia maiuscola. Riconosci quella nobile presunzione di portare la follia artistica dove c’era quella vera (o viceversa?), dal Living Theatre a Giuliano Scabia. Ti si riapre l’antico dilemma del privato/politico e così gli anni tornano a pesare come quelli di piombo (il 1978, unico citato, a epitaffio di Moro e dell’utopia). E tutte quelle occasioni perdute, quei centri non abbastanza sociali: iniziazioni vere o solo desiderate? (e intanto il tuo navigatore interno ripassa la toponomastica di tutti quei sabba teatrali: Ivrea, Casciana Terme, Belgrado, Bergamo…). Riscopri le tue “scoperte” da attore dilettante: soprattutto l’importanza dell’eccesso, in quei sette minuti di danza A rincorrere il sole (era Janis Joplin quella voce strozzata?) – che poi studiando avresti trovato molto simile alla giga estenuante con cui Gemier cento anni prima ipnotizzava il pubblico di Ubu roi. Senti “Babelangelo”, e ti rituffi nella confusione delle lingue teatrali del Festival di Sant’Arcangelo, nella blasfemia della festa e del carnevale dei vent’anni. Nell’ospedale di Kantor, “c’est à dire nulle part”, ritrovi quella Polonia contadina che non hai mai visto negli spettacoli del maestro Grotowski, eppure c’era, mentre tu scalavi la Montagna Sacra della sua eredità. Capisci finalmente quel pensiero tagliente e inutile che intuivi nei compagni più grandi, epigoni del brechtismo e della Ricostruzione: la piattaforma di ogni ragionamento teatrale. E intanto, fra i sinistri riflessi della persecuzione politica (Comuna Baires), davanti ai tuoi eroi, Esilio e Malattia, finisci per annegare in quel senso di inadeguatezza, di “non abbastanza”, con cui hai sempre convissuto. Devi accettarlo: Pinocchio sei tu. E d’altro canto il teatro è il Campo dei Miracoli (presso la città Acchiappacitrulli, nel Paese dei Barbagianni). I ricordi affastellati di Gatto e Volpe riportano sogni e sconfitte di due generazioni teatrali, quelle cui appartengono Antonio (1948) e César (1954) che, nonostante la poca distanza di anni, sono così diverse: la generazione della dialettica, della fiducia nelle magnifiche sorti e progressive, e quella del grido, del paradise now! o mai più. E cimentano lo spettatore, lo coinvolgono per un po’ in questa accumulazione di esperienze, tanto più dolente quanto più fondata sulla voluttà di sconfitta; salvo alla fine lasciarlo, lo spettatore (me), risvegliarsi come Krapp, come un clown-che-non-fa-neanche-ridere, impiccato a tutte le “bobine”, le registrazioni della sua vita, “to the last syllable of recorded time”.

E poi, qualche pensiero. Ma quando reagisci all’autocommiserazione (o al narcisismo) e ti accorgi che attorno a te ci sono anche altre vite per cui il teatro in fondo è solo metafora – quei due, Gatto e Volpe, César e Antonio, tra scena e platea, nel boccascena appunto, iniziano a giganteggiare, a proiettare le loro ombre lunghe. E ad assomigliare alle universali creazioni di Beckett: Vladimiro ed Estragone di Aspettando Godot – con quelle bombette, sembrano “ragazzi irresistibili” provenienti da antichi fasti circensi; o Hamm e Clov di Finale di partita, ormai cauterizzati da qualsiasi residua tenerezza; o A e B, i senza nome di Rough for theatre I, uno cieco e l’altro su sedia a rotelle, che come due incubi di Bosch cercano di sopravvivere litigiosamente in un non luogo fra il Carnevale e l’Inferno. In un rituale di sapore antico: col loro schernirsi, irrispettosi della propria (e altrui) maturità, sembrano avvinghiati in una specie di charivari, quel bullismo medievale nei confronti del Vecchio che si risposa, che non si rassegna al tramonto del desiderio (per punire chi non vuole smettere di amare o piuttosto per accettare, convenire che l’amore non finisce mai, qualsiasi sia il suo prezzo?). Due simbionti, come tutte le più autentiche coppie del teatro comico (e della letteratura): primo e secondo Zanni, Don Chisciotte e Sancho, Don Giovanni e Leporello, figure del cosiddetto “doppio parodico”, coppie che alla fin fine sono un’unica realtà che si manifesta in un apparente antagonismo: un ossimoro. D’altro canto, o proprio per questo, fra apoteosi e derisione, con quelle pisciate fuori scena, i colpi di pistola e i frequenti camera look fronte pubblico potrebbero essere usciti anche da uno slapstick: insomma, perché non anche Stan e Oliver, cari amici di un’infanzia che non vuole finire? E anzi ricomincia sempre: come in Dirty Work (Alchimia, di Lloyd French, 1933), dove, nella casa di uno scienziato che cerca l’elisir di giovinezza, Ollio cade nella vasca e ne esce scimpanzé ringiovanito come individuo e come specie (lo riconosciamo dalla bombetta!); o come – non li dimenticheremo mai – nel loro leggendario, serendipico At the ball, that’s all, il balletto “per caso” con cui entrano nel saloon di Way Out West (I fanciulli del West, o Allegri vagabondi, di James W. Horne, 1937) sugli improbabili falsetti dello yodel western che gli Avalon Boys avevano creato per le Ziegfeld Follies (1914):

Commence advancin’ […] Just start a prancin’
Right and left a glancin’
Slide and glide entrancin’
You do the tango jiggle
With a Texas Tommy wiggle […] Snap your fingers one and all
In the hall, at the ball
That’s all – some ball,
All some ball

Comincia, avanza […] Inizia, basta un saltello
destra e sinistra, guarda qua
Scorri e scivola, che meraviglia
Fai il passo del tango
con l’andatura da texano […] Schiocca le dita, uno e tutte
In pista, al ballo
questo è tutto – il ballo
Tutto qua, il ballo

Già. Tutto qua, il teatro.

Nel giugno 2021 ho preso parte a due études, “prova aperta con racconto” e “presentazione di un lavoro in divenire”, a Bologna (Castello di Àrgile, Teatro della Casa del Popolo) e Milano (ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini) in due rassegne che neanche a farlo apposta si chiamavano “Epica” e “Da vicino nessuno è normale”, latitudine e longitudine dell’autobiografia; quindi ho incontrato Antonio in Val Tidone, sull’Appennino piacentino, dove mi ha mostrato il progetto cui si stanno dedicando (un’Isola del teatro in montagna – ormai abbiamo capito che le isole non galleggiano) e César di ritorno da una tournée, a Vicenza, sull’antica direttrice della prima “fraternal compagnia”. Quelle che seguono sono le domande che ho fatto loro, le loro risposte (e la dimostrazione che a pensarci troppo, si rischia di non capire niente).

“Le conseguenze dell’amor teatrale”

Intervista ad Antonio Attisani realizzata ad Alta Val Tidone il 30 ottobre 2021.

 

– Ho riletto la prima lettera che ti ho scritto, mi sono detto: andiamo all’origine, al primo impatto di questo progetto. E mi sono ritrovato in quella prima impressione, di questo mélange, nello spettacolo, di tenerezza e cattiveria: di sincerità a forza. Mi sono chiesto: che tipo di drammaturgia, che tipo di comportamento sociale, antropologicamente parlando, sta dietro a due persone che a una certa età decidono in qualche modo di far volare gli stracci delle proprie vite? E mi è venuto in mente lo charivari, una festa crudele per… Non lo so, dimmelo tu perché.
Ti ci riconosci in questa idea?

– Mi sembra legittimo e plausibile che tu l’abbia letto in questo modo, ma tu ti riferisci al risultato dell’incidente. L’incidente è avvenuto così: César e io ci siamo ritrovati dopo tanti anni di separazione: abbiamo scoperto di essere vicini di casa a Milano, in un momento molto particolare della mia vita, della sua e anche di quella della collettività, per la pandemia e non solo. Io ero alla fine di una convivenza trentennale: una fine brusca, improvvisa, bruttissima, che mi aveva lasciato quasi nel panico, perché avevo tanti progetti. Coincideva con il momento della pensione. Tutti i progetti che avevo fatto, i sogni sul ritiro, sull’ultima fase, sul quinto atto, all’improvviso erano naufragati. Una prima reazione è stata quella di trasferirmi a Milano, dove tra l’altro ho scoperto di essere vicino di casa di César.
Ero molto tentato di abbandonarmi alla depressione, in quel momento. La depressione consente di lamentarti, di lasciarti andare, di chiedere aiuto e metterti al centro dell’attenzione. Questo, diciamo, è l’aspetto psicologico della vicenda. Sono riuscito a sfuggire a quella tentazione anche perché César mi sollecitava continuamente a fare un’azione teatrale, ad esempio scrivere la mia storia: “Se vuoi fare uno spettacolo, da solo, quello che vuoi, io ti aiuto” ecc. Facevo resistenza perché queste cose non mi interessano. Ma la sua insistenza è stata così forte, così costruttiva, così amichevole, affettuosa come può essere un’amicizia riscoperta, un’amicizia nella differenza di idee, di carattere, di storie. È stato bello, questo. Un’amicizia fatta del parlarsi apertamente. E la sua insistenza è stata tale che a un certo punto è diventata un continuo scambio di opinioni che avveniva sia passeggiando o frequentando alcuni locali del quartiere: io gli facevo scoprire il mondo dei cocktail, degli aperitivi, lui non sapeva niente, era un selvaggio, non aveva mai bevuto un Martini, un whiskey sour, e insisteva con la sua proposta letteralmente oscena…
A un certo punto abbiamo cominciato a scrivere il testo, anzitutto via e-mail – era già scattato il lockdown – con una strana procedura. Lui mi faceva domande assurde del tipo “Scrivimi in dieci righe cosa pensi dell’attore”, veramente domande del cavolo. Però mi è piaciuto fare questo esercizio di abbrutimento… E quindi gli mandavo le dieci righe sull’attore. Poi lui mi mandava un’altra cosa, e io gli rispondevo. Via via si è sviluppato un dialogo che non è poi diventato quello fra il Gatto (lui) e la Volpe (io). Intendiamoci, abbiamo molto re-immaginato, reinventato e cosparso di interessanti bugie tutta la storia.
Lui ha cominciato a rielaborare queste cose sulla base di un’idea per così dire scenografica: pensava a un palcoscenico con molte vele che fossero anche ritratti, e un panorama di pochi oggetti come i secchi, le corde, il tavolo. Ma l’idea fondamentale era che il dialogo dovesse essere, appunto, quello tra il Gatto e la Volpe, due figuri che hanno passato una vita nel teatro attraverso queste maschere; una metafora per raccontare di due sconfitti rispetto alla realtà storica, nella quale il vincitore è Pinocchio, colui che è diventato un ragioniere, un amministratore di condominio, un attore di teatro stabile. Sconfitti gloriosi, però, una sconfitta di cui andare fieri, tutto sommato. Questo è stato per così dire il nucleo drammaturgico, sviluppato in un lavoro quasi frenetico. Lui mi mandava continuamente abbozzi delle singole scene e io rispondevo, soprattutto dicendo molti “no”, come ancora oggi si vede nel testo. In questo modo si è accumulato un copione sulla vita nel teatro a partire dalla nostra biografia. Ma la nostra biografia non è il contenuto della narrazione, è soltanto la chiave.

– Tu dici: il contenuto è il teatro, la biografia è solo il veicolo. Certo, ci sta, però questo vale per voi. Dal di fuori, per me, o per uno spettatore, le vostre biografie sono senz’altro rilevanti, storie e Storia insieme. È difficile dire… Poi, porti a casa il risultato che ti proponi: senz’altro lo porti a casa. Ma l’emozione dello spettatore si attacca proprio alle vostre autobiografie. Se non ci fosse quello, se non ci fosse il veicolo…
– Non posso dirlo io, questo…

– No, infatti. È l’impressione che ha fatto a me. Per questo la metafora dello charivari. Per questo vorrei sapere se lo accetti come paragone. Al di là poi del rapporto con la sua forma storica, è proprio quell’agrodolce, quella mischia di voi che continuate ad aggiungere episodi, momenti, punti di vista sulle vostre biografie, sempre un po’ prendendone le distanze, insultandole, insultandovi tra di voi.
Mi colpiva tantissimo quando nella prima parte… ma credo che questo si sia un po’ stemperato nel copione. Questo me lo dirai tu: dal primissimo copione avete un po’ attenuato l’aggressività reciproca o…?

No, è attenuata sul piano verbale, ma nell’azione è accentuata.

– C’è il colpo di pistola… Quello ci sta, perché siamo in piena ideologia, il comunismo: l’iperbole… Ma l’inizio? È cattivissimo…
– C’è proprio un rapporto di antipatia… Io praticamente gli sputo in faccia, all’inizio. Gli dico: “Non mi sei mancato”, e lui: “Tu purtroppo invece mi sei mancato”. Poi però cominciano ad aprirsi alcune crepe, perché per me un poco alla volta il teatro della scena, che era un ricordo, diventa una realtà.
Quando hai detto charivari mi sono confuso, ho pensato al ritorno dei morti. E in questo senso, ti devo dire che sì, questi due sono già morti, si stanno incontrando da un’altra parte, anche se la cosa non è didascalicamente evidenziata per il pubblico. Nel nostro sentimento, sono due morti che si incontrano. C’è anche lo charivari nell’accezione in cui ne parli tu, rappresentato nel sottotitolo: Ovvero le conseguenze dell’amor teatrale, conseguenze ovviamente non raccontate in termini realistici, perché il realismo è un’espressione dell’Io, ideologicamente controllata, narcisisticamente gestita; mentre noi facciamo teatro con la spregiudicatezza del grottesco. Se il realismo è l’Io, il grottesco è il Sé, cioè l’Io più profondo, quello in cui convivono tutte le contraddizioni.

– Quindi è inevitabile mettersi alla berlina per ritrovarsi, in qualche modo?
– Qui non c’erano vite da celebrare o vite da maledire. Fondamentale è l’esercizio della sincerità. Difficilissimo. Infatti non ci siamo riusciti: raccontiamo un sacco di balle.

– Però sincerità è un’altra cosa: sincerità è rammemorare la sofferenza, le cose che ti sono state spiacevoli. Ma nello spettacolo c’è anche quel contenuto di aggressività, quasi programmatica, vorrei dire, che è qualcosa di più, un coefficiente ulteriore. Come quando hai imbarazzo ad accettare di dire delle cose, e allora: questa è merda, dentro gli ospedali facevano entrare i deficienti, Babelangelo, e via con tutta questa diminutio dell’esperienza. Che appare un po’ come un artificio retorico, perché poi alla fine invece non rinnegate niente; non rinneghi niente di quelle esperienze, anzi ce le racconti con orgoglio. Ecco, è questa mischia qua che mi ha fatto pensare allo charivari, come dire: ci prendiamo in giro, così da domani è tutto perdonato (ammesso che ci sia qualcosa da perdonare)…
– Ma è quanto nella vita siamo riusciti a fare, che abbiamo voluto fare, che siamo stati capaci di fare e in fondo… (sospira) Rinnegarlo sarebbe impossibile. Anche volendo. Ci sono tante cose che stiamo ancora capendo. Fare viene prima di capire.

– La seconda questione è collegata alla prima. Mi martella una frase, e qui chiedo a te da storico: l’ha mai detto Grotowski che il teatro non è un paese per vecchi? Mi pare che ne parli quando gli chiedono del training: è una cosa che dura fin che c’è la prestanza fisica, e quindi di fatto anche il teatro – almeno quello che si fonda sul training; segue le stagioni della vita, in questo senso.
– Ricordo Grotowski dire che la durata di una compagnia è grosso modo quella della vita di un cane: non si può pretendere che le compagnie durino in eterno. Quattordici-quindici anni sono un tempo più che ragionevole, già un grande successo, ma poi non ha più senso, perché le persone hanno il bisogno e il desiderio di intraprendere altre strade. Il problema è che magari in quel momento alcune di queste persone, com’è stato quando lui ha smesso di fare spettacoli, non erano pronte, ha lasciato i suoi compagni sull’orlo di una crisi di nervi, non sapevano cosa fare, dove andare. Alcuni sì, altri no. Penso che Cieślak abbia molto sofferto. Però avevano tutti bisogno di cambiare e sono cambiati, hanno fatto altre cose.
Altra faccenda è la vecchiaia; ci sono pagine molto belle di Grotowski sul vecchio Stanislavskij e su Jacek Woszczerowicz (1), un attore che lui adorava, sulla sua vecchiaia, su quando l’ha visto recitare e poi è andato a trovarlo in camerino e ha scoperto che era un malato terminale, che stava per morire e ormai recitava parlando con Dio, diceva lui, non più per il pubblico. Quindi sulla vecchiaia non ha detto parole di condanna. Certo, la prestanza: magari avrà scherzato, perché era anche molto spiritoso. Vedendo gli spettacoli dell’Odin si sarà forse detto che a una certa età non puoi più fare certe cose…

– Si parla di corpo-mente e quindi non è solo il corpo che invecchia…
– Ma i bravi attori da vecchi sono sublimi. Pensiamo a Bernard Minetti (2), a Tino Carraro, adesso a Roberto Herlitzka e altri ancora. Davvero emettono luce, non sono illuminati dai riflettori, sono loro la fonte della luce e dell’ombra. Certo, non fanno le capriole, ma non ne hanno bisogno.

– Questo è già il collegamento con la terza questione che ti volevo porre, sul valore relativamente “testamentario” di questo spettacolo. Non c’è dubbio che tutti e due, sia tu che César, interrogate le vostre vite per trarre una specie di bilancio, e il fatto che lo facciate e che ce lo proponiate significa che in qualche modo abbia per voi un valore di exemplum, di testimonianza…
– Di invito…

– Più che testamentario, testimoniale…
– Sì, più testimoniale, perché non c’è la presunzione di lasciare qualcosa, non c’è un patrimonio da lasciare. Il patrimonio tu lo puoi determinare se come spettatore e come persona rifletti su questa storia, ma noi certo non abbiamo la presunzione di avere qualche prezioso segreto da trasmettere…

– Un’eredità è pur sempre un regalo…
– Noi possiamo soltanto fare dono di un modesto esercizio, poetico, della sincerità. Però in termini di bilancio, appunto le “conseguenze dell’amor teatrale”. Perché questo accomuna profondamente César e me: nella nostra vita abbiamo messo il teatro al primo posto: davanti alla famiglia, davanti a tutto. È stato un amore esclusivo, non fanatico ma esclusivo, primario. A esso abbiamo sacrificato tutto il resto. In modi diversi, ma questo tratto l’abbiamo in comune, sì.

– Quando paragoni il teatro al Paradiso (3), è come se dicessi che vale ancora la pena, per uno spettatore che viene a vedervi, per un giovane… ça vaut la peine
– Ça vaut la peine se appunto capisce che l’idea proposta è quella del lavoro su se stessi, non l’attesa per quello che ti può dare un altro. È così diversa la storia della società in cui siamo vissuti noi! Non abbiamo molto da insegnare, ma siamo, penso, un modello di caparbietà. Da qui il “messaggio” e la cornice polemica: il teatro è lavoro su se stessi, non rappresentazione di idee.

– Il tuo saggio infatti conclude: “Si recita maldestramente quando si vive nella superstizione del ‘credere di essere’ / e del ‘voler dire’, con l’illusione di scampare all’inevitabile naufragio, / e si recita o gioca comme il faut quando si percorre il mare delle contraddizioni divertendosi e facendo divertire, / scegliendo di continuo l’azione esatta tra tante possibili, / sempre sapendo del fine temporaneo e della fine certa”. Tornando allo spettacolo, come è nata la struttura? È scoperta, dichiarata anche per lo spettatore: il Servo di scena porta addirittura in scena i cartelli con i titoli delle scene: “Incontro”, “Vocazione”, “Patologie”, “Scuola”, “Sesso+teatro”, “Ferite”, “Anestesia”, “Addio corpo”. Già prima mi hai detto che c’è una progressione: quando io ti chiedevo di questa aggressività, mi hai fatto notare che evolve, a un certo punto si stempera nel bilancio progressivo. Come avete costruito questa progressione?
– Le proposte sono sempre state di César, è lui il drammaturgo in senso letterale. Io ho reagito attivamente alle sue proposte. A volte dicendo no; ma molto più spesso, invece, cercando di dare seguito alle sue proposte. Sono stato attivo, però gli chiedevo con insistenza di dirigere lui il lavoro, ed è stato lui a farlo; io l’ho seguito come riuscivo a fare, finendo per realizzare ciò che mi era possibile.

– Quindi questi contenitori, questa cassettiera l’ha pensata lui, e tu la riempivi…
– Sì, lo pregavo, gli ho ricordato mille volte che lui doveva avere l’ultima parola. È probabile che abbia accolto molti suggerimenti.
Per tanti motivi, ma uno in particolare. Io sto tornando in scena dopo quarantacinque anni, avevo fatto cose abbastanza impegnative in teatro, anche da protagonista in spettacoli importanti, però non ero mai stato in scena per più di un’ora da protagonista, c’erano sempre diversi altri attori… Dopo tutto questo tempo mi tocca fare cose…
È molto impegnativa come performance. All’inizio avevo un terrore folle, dicevo a César: “Non ce la faccio. Adesso ti do una mano per mettere insieme il testo e imbastire lo spettacolo, ma poi ti trovi un altro”. E César pian piano mi diceva: “Vedi? Tu questa cosa un mese fa non la potevi fare e adesso…”. È vero, ho vissuto anche una specie di rinascimento fisico e psicologico, è successo qualcosa di incredibile. Mi ha proprio ripescato, questa esperienza.
Però chiedevo sempre a lui di dirigere. Anche perché non ho mai avuto molta fiducia in me stesso come drammaturgo e come regista. Nella prima fase della mia vita, quando ho fatto teatro, qualche tentativo in quella direzione non mi è assolutamente riuscito. E questo è anche stato il principale motivo che mi ha portato a lasciare il teatro come attore: se fossi stato coerente avrei dovuto cominciare a fare il mio teatro, formare una compagnia, dirigerla, e invece non ne sono stato capace.
E allora sono passato alla critica, allo studio, all’organizzazione. Anche questa è una ragione sepolta. Durante la preparazione di Boccascena ho scoperto un sacco di cose, ad esempio ho rimosso alcuni blocchi che avevo come attore; adesso sono capace – e mi piace moltissimo – ascoltare i miei partner in scena e rispondere loro nel modo migliore. Mi rendo conto che allora non lo sapevo fare: nessun regista mi ha aiutato, perché andava così… E adesso so, ad esempio, che non sono in grado di scrivere un testo drammaturgico, non ho assolutamente questa velleità o questo desiderio segreto che tormenta tanti professori e critici!; però so di poter essere parte attiva in una compagnia creativa. Sì, di poter contribuire. Queste sono scoperte, per me (ride). È anche la prima volta che lo dico.

– A un certo punto hai smesso – la scelta si è fatta da sola, mi par di capire: non potendo andare oltre, non sentendoti in grado di renderti autonomo nelle scelte teatrali – e d’altro canto ti andava stretto di essere portatore d’acqua, di testi, di intenzioni di altri – allora hai deviato: «Scena», Santarcangelo, l’università eccetera. A posteriori però questa cosa, anche nello spettacolo, è come se tu la vivessi – o almeno in qualche momento o battuta; o magari è solo una proiezione mia – come se fosse un minus, come se fosse una sconfitta…
– Sì, hai ragione.

– Ma perché? Non è semplicemente un’altra cosa?
– Questo passaggio mi è chiaro soltanto da stamattina.
Fino a oggi ho sempre pensato di essere un attore fallito, vale a dire di avere fatto le altre cose che ho fatto – sempre rimanendo nel teatro, salvo le lunghe parentesi delle malattie – perché non ero capace di diventare l’attore che avrei voluto essere, un attore inventivo, un grande attore invece che soltanto un bravo attore. Che fossi bravo è documentato: ero bravo davvero, ma forse soltanto bravo… Insomma mi vivevo così e mi dicevo… Non so cosa mi dicevo. Epperò sono stato attore in tutte le cose che ho fatto, perché appunto credo che l’attore sia il lavoro su se stessi, che la questione non sia recitare o fare sul serio. Nella vita si recita bene o si recita male; ma sempre si recita. Finora pensavo: se fossi stato veramente… Diciamo che non ho avuto successo con me stesso.
Stamattina, mentre ti aspettavo, ho acceso il computer e sono caduto su una cosina di Carmelo Bene: “No, no, io non sono un attore: perché, scusate, Stanislavskij, Artaud, Mejerchol’d – soprattutto questi tre – sono, siamo anche attori, ma abbiamo fatto questo e questo e questo… Non potete ridurci. Attore è soltanto quello che si mette un costume e si trucca…”. Ha ragione, mi sono detto: ho fatto tante altre cose, sempre nel teatro. Quindi forse il meno potrebbe essere anche un più. È un più modesto, naturalmente, non è quello suo, non è quello di Mejerchol’d, però sì, forse è anche un più, non un fallimento.

– Questa ambigua vocazione alla santità per cui l’idea che essere attori sia avere questa specie di purezza della vocazione, perché è vocazione al sacrificio di sé, e tutto quello che media rispetto a questa cosa è sporco, un ripiego… Come in Assassinio nella cattedrale. Pensa che io invece mi sono sempre figurato che proprio l’attore fosse qualcosa di fallito: un ballerino, un cantante, un drammaturgo fallito… un ciarlatano di altre abilità. Quindi forse questo ragionamento è reversibile, clamorosamente reversibile. Si tratta forse di trovare un po’ di pace con se stessi, del fatto che in epoche diverse della vita uno si trova a fare cose diverse, semplicemente.
– Certo. In Teatro Paradiso trovi questa idea della reversibilità: Serena Vitale traduce con “reversibilità” un termine teatrale equivalente di “interpretazione’. Nella vita si interpretano diversi ruoli.

– Questa progressione verso il sacrificio, verso l’assoluto – che altri magari identificano con la carriera, con il successo – in qualche modo verso la sublimazione… In realtà sia fare teatro sia fare qualsiasi altra cosa è una sconfitta. La vita è una sconfitta. Allora perché quella sconfitta dovrebbe essere più significativa di altre? Qui ho preso una bastonata, poi sono andato a prenderla da un’altra parte. Amen.
– Fino a ieri per me era così. Oggi non saprei più.

– Beh, ecco, forse concettualmente. Perché poi nei fatti, il fatto che tu ti sia impegnato in questa avventura…
– C’è sempre questa discrasia.

– …il tuo corpo è andato avanti rispetto alla tua testa…
– E comunque è autonomo, abbastanza autonomo dall’ideocrazia.

– Allora, rispetto a questa gerarchizzazione fra il teatro fatto e il teatro parlato-detto- studiato mi chiedevo se anche la parola “boccascena” contenesse questa “differenza”. Perché l’avete intitolato Boccascena?
– Ho pensato alla cavità orale-teatrale come qualcosa che divora e butta fuori.

Schechner, ne La cavità teatrale (4), aveva raccolto un saggio di Kaplan che non mi è mai piaciuto molto, troppo psicanalitico, anche se indirettamente riscatta un po’ la parola come gesto. Perché parlare è un’azione molto complessa, non è che sia ontologicamente diverso dall’agire.
– Certo. Questa cosa in gioventù non mi era chiara. Sapevo di avere avuto una scuola senza qualità, di non avere avuto veri maestri. L’unica insegnante fantastica è stata Iva Formigoni (5), però con questo non c’entrava. Sono cose che ho cominciato a capire molto più tardi. Soltanto capire, comunque. E adesso invece questo appuntamento con la vita mi ha permesso di affrontarli fisicamente, questi problemi, quindi di riprenderli in un altro modo. Riuscire a fare è un modo diverso di capire. Anche la voce, la recitazione, la parola… Nel teatro che si faceva cinquant’anni fa il problema era quello dei toni e delle atmosfere… Ma vaffanculo! Non devi trovare i toni, devi trovare il senso. Se trovi il senso, se sei capace di ascoltare i tuoi partner, lo spazio, il pubblico, viene tutto, hai accesso alla fonte, al ritmo, al suono, trovi la meraviglia dell’espressione. Altro che recitazione… Nessuno ci insegnava queste cose fondamentali.

– Tornando al testo: l’hai visto crescere, e in che direzione? E in che direzione può crescere ancora? Parlo del testo, a questo punto, nel senso del testo performativo, del progetto.
– Prova a pensarci come storico del teatro. Stiamo facendo qualcosa di unico: due attori anziani che scrivono un testo che potrebbe essere messo in scena anche da altri, lo interpretano insieme, sono coautori a tutto campo, e senza essere attori affini, diciamo, non essendosi scelti per affinità artistica ma per fratellanza culturale. Non mi pare che nella storia del teatro sia mai accaduta una cosa del genere. Due gerontoguitti che fanno questa cosa a partire da sé, dall’“amor teatrale”, dal discorso sul teatro eccetera. È e resterà un caso assai raro, ma nel mio percorso è una realizzazione – una delle tante possibili – dell’ideale grottesco, secondo me oggi fondamentale. Soltanto un teatro grottesco e non realistico consente la manifestazione del Sé, il lavoro su di sé, mentre quello realistico è un lavoro sull’Io, una manifestazione dell’Io e quindi dell’ego. Poi è un lavoro sull’essenza poetica del teatro, che non sta nella poesia strettamente intesa, nei versi e nell’andare a capo, sta prima di tutto nella composizione del corpo vivente.
Come si possa andare avanti io non lo so perché sono al capolinea, però penso che se i giovani capissero queste due o tre cose fondamentali, potrebbero veramente fare il teatro dell’avvenire anziché… Comunque è qualcosa che sta già avvenendo. Si vedono diverse cose interessanti in giro per il mondo, ma trovo che il teatro sia carente di una coscienza della contemporaneità culturale. Può sembrare che ci sia molta cultura perché si parla molto, si pubblica molto, ci sono discorsi e spettacoli arzigogolatissimi che aggiornano il teatro con la multimedialità e ci si titilla con trovatine da ignoranti come il “postdrammatico”, dimenticando il fondamento di tutte le contemporaneità, vale a dire quel corpo umano che, come diceva Jean-Luc Nancy (6), viene prima del teatro e persino della religione. Insisto: fondamentale è quello che si apprende studiando e lavorando insieme con il corpo umano. Per questo la danza oggi ha staccato di un giro il teatro, e non soltanto quello dei claustrofobici “monologhi”.
Ora devo contraddirmi. Il teatro che noi due facciamo è vecchio. Con César ci scherziamo sempre, è roba da gerontocomio, un reperto di vecchio teatro. Non poteva che essere così. Però è anche un lavoro sul principio generatore della teatralità. È un atto d’amore per un antico e sempre nuovo protocollo curativo utile per affrontare quella patologia che è la vita. Quindi non soltanto una vecchia cosa, ma anche, boh… una invocazione, un invito, una speranza e un’idea offerta a chi lo farà, il teatro.

– Penso che conserverò per sempre queste registrazioni. Grazie, Antonio.
Anch’io mi sono spesso domandato perché si fa teatro, naturalmente. La risposta che mi davo, le motivazioni per cui posso farlo io o una persona come la vedo io, erano di due tipi: una di tipo narcisistico e una di tipo esibizionistico. Da dov’è che arriva il mio piacere? O dal fatto di piacere – il mio corpo piace agli altri – e quindi è conseguenza di un atteggiamento esibizionistico; oppure da come riesco a far piacere agli altri l’immagine di me che proietto su di loro – e quindi è un piacere di tipo narcisistico – da cui l’attore che si annulla nel personaggio, che si trasforma da uno spettacolo all’altro (mentre l’attore del primo tipo si esibisce fisicamente: l’acrobata, il mattatore). Però, sentendoti parlare, questa spiegazione non mi ispira più. Non che non sia giusto cercare perché fare teatro dà piacere, è fondamentale: se tu non sai perché ti piace… Però, appunto, davanti a un progetto come quello che state realizzando voi…

– Aspetta, proviamo, proviamo… In questa distinzione non mi riconosco. Io non mi piaccio per niente come persona e nemmeno penso di piacere. Però provo piacere a stare in scena in questo modo, ho ritrovato quel piacere, e nelle prime prove pubbliche ho incontrato un certo consenso che potrebbe essere il prodromo di un futuro successo, chiamiamolo così. Ma cosa sta accadendo? Il lavoro su se stessi svolto in pubblico non è, non dovrebbe essere un’esibizione narcisistica, semmai pertiene al narcisismo come tragedia dell’impossibilità di conoscersi: provare piacere a dimostrare la necessità dell’impossibile lavoro del conoscersi.
Conoscere è sempre riconoscere, no? Se io racconto in un certo modo i miei guai e le mie contraddizioni, qualcuno riconoscendosi può lavorare a sua volta, imparare a “utilizzare” i propri guai e le proprie contraddizioni. Un piacere di tipo assai speciale, un po’ masochistico e un po’ sadico, per dirla veloce. Ha ragione Paul Preciado, il lavoro su se stessi è il cammino alla scoperta della propria mostruosità mutante (7).
Voglio dire: non provi mai un senso di imbarazzo quando incontri una persona dopo tanti anni e ti sembra quella che conoscevi ma truccata (male) da vecchia? Il che è buffo, ma poi ti rendi conto che lei o lui non si può struccare, e sei preda di una sensazione orribile, anche perché capisci che nello stesso momento lei o lui stanno provando la stessa cosa per te. Forse tu non ti trovi ancora in questa fase della vita, o più probabilmente non so spiegarmi. Ma questo tremendum non è neppure spirituale, figurati… (lungo silenzio). Siamo tutti brutti, siamo diventati brutti ma brutti ma brutti. Possiamo un poco difenderci evitando di guardarci, ovvero eliminando gli specchi; ma la vita resta abbastanza dura perché non puoi evitare di vedere tutti gli altri.
Ed eccoci approdati all’inconsolabilità, ovvero alla (sola?) possibile sapienza umana.

– Forse perché incolpiamo il tempo di ciò che sarebbe potuto essere, cioè dell’impossibile, quello che non si è materializzato, oppure quello che è cambiato, non so.
In riferimento a quella distinzione manichea che facevo: non era perché io fossi innamorato di me stesso… In quella distinzione mi sarei messo fra gli esibizionisti: mi piace catturare lo sguardo degli altri mentre mi muovo; non perché pensi di essere bello, ma anche semplicemente perché esisto. Forse è lo sguardo della madre quello che cerchiamo.

– E lo sguardo dei figli no? Che è tutt’altra cosa. Perché la mamma ti troverà sempre bello, mentre i figli li devi conquistare ogni volta che li incontri, da vecchio. E non parlo del loro amore ma della loro attenzione. Oppure pensiamo all’insegnamento. Si pone la stessa questione, no? L’insegnamento in presenza è fatto di un erotismo che poi si evolve in capacità critica attraverso il complementare studio dei testi. Ci sono quelli che seducono vantandosi e spacciandosi per autorità, poveretti!, ma ci sono anche gli insegnanti che seducono distribuendo sementi, ovvero sorprendendoti con cose che riconosci interessanti, utili, da coltivare… Non può che gratificarti, ma non ha nulla a che vedere con l’esibizionismo manipolatorio: è un invito galante al quale il destinatario risponde incontrandosi con qualcun altro.

– Penso alle ultime lezioni che ho fatto: effettivamente quando vuoi stupire, non passi il muro. Ti accorgi che riesci a passarlo se molli l’obbiettivo, se lo incarni invece in qualche modo, se il tuo corpo si anima nelle cose che stai dicendo e risulta convincente per il fatto che sei tu ciò che stai dicendo. E allora lì vedo gli occhi dei ragazzi sgranati, mi specchio in quegli occhi. Ma non perché vedono in me bellezza, virtuosismo, capacità… vedono che sta accadendo qualcosa.
– In un certo senso tu non c’entri, sei il tramite di qualcosa di bello che ti attraversa e arriva a loro. Già.

– Mi dai ancora qualche minuto? Diamoci un po’ di tono letterario.
Questa vostra coppia mi ha fatto pensare a Beckett. Pensavo che l’aveste assolutamente letto o visto, perché…

– Non abbiamo mai parlato di Beckett. Mai. Quando qualcuno ci ha detto: “Ah, ma è di derivazione beckettiana”, noi niente, zitti, boh.
C’è un perché contingente – e poi ce ne sarà anche uno più profondo che… chissà qual è! Il contingente è questo: quando ho rivisto César, la prima cosa che ha motivato il nostro dialogo è stata un mio libretto su Solomon Michoels e Veniamin Zuskin (8), i due attori yiddish sovietici che hanno fatto un teatro meraviglioso, entrambi assassinati da Stalin. César aveva letto questo libretto e voleva – vuole ancora – trarne uno spettacolo. Era quella “la coppia” di cui noi parlavamo: due che si volevano molto bene, che hanno condiviso una vita teatrale in tempi di grandi sfide, ma che avevano anche angoscianti conflitti. Poi, durante l’elaborazione di Boccascena ci siamo paragonati a diverse altre coppie, ad esempio a Don Chisciotte e Sancho Panza, perché a volte io mi comportavo veramente da Don Chisciotte intellettuale ignorante rispetto a lui, buzzurro sapiente…

– Sai che avrei detto il contrario? Sempre per il principio della reversibilità di cui si parlava…
– E poi altre coppie celebri. Beckett proprio no.

– La rarefazione delle situazioni; questo rapporto di dipendenza reciproca inaccettabile, ma nello stesso tempo cercata; il discorso della prima parte, in cui vi assegnate due disabilità simmetriche… E poi quante volte si ritorna sulle patologie, sui deficit, le mancanze… E il finale…
Però, in verità, il finale riscatta questa cosa.

– Per finale intendi il “Matrimonio”?

– No, il sottofinale, l’“Addio ai corpi”. Vedi, però: io l’ho vissuto come un finale. E invece ho vissuto il matrimonio come una specie di moralina goldoniana: un postfinale. Per me il finale vero è stato l’“Addio ai corpi”.
Antonio Pizzo ci ha detto la stessa cosa… “Avete due finali! Ma insomma, no, il finale deve essere uno solo”.

– I finali possono essere infiniti: anzi, uno spettacolo, se ha dieci finali, meglio. In fondo se una scena vale qualcosa è perché è sempre finale, in qualche modo. E poi, come diceva Michael Frayn – ma non solo lui – il teatro è tutto lì: entrate e uscite. Quindi non solo non mi disturba, ma va benissimo. Però narrativamente…
– Lo trovi consolatorio, il matrimonio?

– Un po’ di testa, forse. Non consolatorio in senso banale, nel senso di “tutti vissero felici e contenti”; ma quasi solo per rispondere alla domanda: “E alla fine?”
– Forse bisogna vederlo fatto. Tu l’hai soltanto letta: adesso la stiamo montando, quella scena. C’è la pioggia, il trucco che si disfa e i due che si separano. Vedremo cosa ne esce. Comunque di Beckett proprio niente.

– Era solo per capire, non per fare filologia. Ma restiamo sul finale: mi spieghi perché non ti entusiasma tanto quella cosa dell’addio al corpo?
– Questa è una delle scene che mi ha più sorpreso. È interamente di César. Sì, ho dato il mio contributo, ma forzato, in un certo senso. “Allora, cosa dici delle gambe?”, “Cosa dici del culo?”. Ho “dovuto”. Ma non mi convinceva. E invece tutti quanti reagiscono molto positivamente. Io ancora continuo a non capirla, ma farla mi procura un certo disagio, quindi vuol dire che ha un senso.

– Viene in mente il bambino appena nato che si mette in bocca la manina: “che cos’è questa cosa?”, una mano; si prende il piedino, “gnam gnam”, che cos’è questo? È il piedino… Viene prima dell’Io, prima del rimettere insieme tutte queste esperienze…
– Qui invece, nello spettacolo, viene dopo.

– È come vedere una specie di percorso à rebours di ringiovanimento dei corpi attraverso la riscoperta di impressioni originali, infantili in quanto oggettive. Lo trovo conclusivo di un percorso della memoria che altrimenti si chiuderebbe con un accento più intellettuale.
– Non l’ho ancora capita e forse non posso permettermi di capirla. Però sento proprio che lì è la tragedia, la tragedia nel senso della morte definitiva.

– E la gente ride…
– Certo, la gente ride. Non vedere più l’uccello… La gente giustamente ride. Però la nostra è una con-figurazione tragica.

– E sono tutti testi che chiudono bene in battuta. A voler essere anche un po’ opportunisti, calcolati… La gente ride amaro, con profondità, anche perché il testo chiude bene, come un teorema.
– Vedi? Le cose si capiscono dopo.

– In fondo Pinocchio fa proprio questo, quello che fa il neonato: mette insieme tutte le proprie esperienze del corpo ed è così che diventa adulto.
Non è abbastanza quello che fa Pinocchio? Diventare uomo? Non è che non fa niente: qualcosa fa nella sua vita, diventa uomo. In fondo Gatto e Volpe restano sempre animali.

– Ma noi siamo seriamente poco seri. Un altro libro che non abbiamo nemmeno riaperto è Pinocchio. Mai guardato, mai riaperto. Questa antipatia per Pinocchio è per così dire “artistica”, ma anche di tipo assolutamente pregiudiziale e ideologico. Per dirlo in fretta, viene dalla necessità di proiettare un po’ di odio, di inventare una figura antagonista.
Pinocchio non diventa soltanto un adulto, diventa un “bravo ragazzo”. A Milano, in un giardino pubblico, c’è un monumento a Pinocchio. In cima c’è bravo studente di scuola media, con i libri in mano: sotto, il burattino morto, un corpo vuoto e disarticolato, inerte; e ci sono il Gatto e la Volpe rappresentati proprio come due animali. L’epigrafe declama: “Ti ricordi quand’eri un burattino? Adesso sì che sei diventato un bravo ragazzo”, frase non di Collodi ma del mondo che ha voluto attribuire a Pinocchio quel significato sinistro (9). Quel monumento che mi ha infastidito per anni, perché abitavo da quelle parti, e ammoniva anche i miei figli. Quella esortazione: “Fai il bravo ragazzo, non essere un Pinocchio, non divertirti, non fare puttanate” è lo stigma della Milano capitale morale e del boom economico prima del ‘68.

– Ma è Lucignolo il cattivo, non Pinocchio…
– Parlo del Pinocchio ribelle: che non va a scuola, che va a teatro, ma infine decide di smettere di divertirsi e di adattarsi. L’abbiamo voluta intendere così, senza discutere e senza approfondire.
In questo spettacolo ci sono anche diverse dediche affettuose, implicite ed esplicite. In questo caso a Carmelo Bene, anche se capita di contraddirlo. E la fine del Pinocchio di Bene è pure molto malinconica, no?

– Il Pinocchio che voi avete escluso. Anzi, che a un certo punto volete uccidere…
– Ma nella storia hanno vinto loro, quelli che sono diventati bravi ragazzi… Noi vinciamo in questo spettacolino, una piccola gaia vittoria dell’esorcismo teatrale, ma lui ha vinto nella realtà “dura”. ‘Fanculo.

– Smettendo di dire bugie, fra l’altro: che è una delle arti più sottili del teatro…
– Io l’ho agitata fin da subito la questione; César è stato d’accordo: creare un corto circuito simbolico, ovvero non creare simboli univoci e rassicuranti, ma contraddirli. Perché i simboli danno certezze, sono travestimenti ideologici: quindi prete con stella rossa, comunismo e cattolicesimo… D’altronde la Polonia e l’Italia sono campioni in questo senso.

– Bene. Mi ero preparato anche domande sulle singole scene, ma…
– Parlane con César. Lui ti potrà parlare di come sono state rielaborate le scene che a volte non riuscivano: e taglia e mischia e fa; e quelle che abbiamo tagliato, le tante cose buttate via. Sarà più presente. Il bello è che lui reagisce velocemente. Io sarei paralizzato. Se una scena non va, lui la prende, la rivolta, la rifà, ha un tipo d’intelligenza molto costruttivo e immaginativo. Beato lui.

– A parte la breve conoscenza da giovani, l’ho rivisto alle prove a Bologna e a Milano: non molla l’osso, azzanna subito quello che può essere il suo rapporto con il pubblico e lo vuole far funzionare. Anche solo nel mettere gli oggetti in scena… È come se arredasse il salotto, “ti aspetto a casa mia”. Rispetto all’organizzazione della scena, io per esempio avrei un tipo di pensiero che precede un po’ il rapporto con lo spettatore: sento il bisogno, come dire, di configurare lo spazio di questo rapporto; lui invece… Lo capisci anche da oggetti piccoli, cartelli scritti a mano: va bene tutto, purché serva al corpo a corpo. È lì che appunto immagino, capisco quello che mi dici: che se un testo non gli funziona, lui lo strizza, lo aggiusta… Poi ho visto una cosa di lui che non sospettavo, associandolo all’esperienza Odin, ovvero al teatro-sofferenza: il piacere di prendere le risate del pubblico. Fa il Gatto come una vecchia volpe.
Boccascena è un’esperienza nuova anche per lui.

– Ehm, glielo voglio chiedere. Perché A rincorrere il sole era proprio una macerazione…
– Lui dice a un certo punto “Il patetico mi dona”. Ci ha giocato tutta la vita. E io l’ho sempre preso per il culo. Una delle cose più belle che accadevano nelle prove, per me, è stata farlo ridere. Ci sono ancora oggi scene in cui lui fa fatica a trattenersi. È stata una delle cose più gratificanti per me: è bello far divertire una persona che stimi e per cui provi affetto.

– Infine…
– Noi proponiamo agli spettatori un piccolo melodramma della crudeltà, o almeno una sua variante. D’altronde questa è la tensione che caratterizza César fino dai tempi di A rincorrere il sole. La crudeltà dev’essere rivolta anzitutto contro se stessi, serve a dissotterrare la vita dalla propria vita evitando sia la falsificazione egotica del teatro borghese sia la sgraziata vanità del teatro militante. È una strada piena d’inciampi e infatti siamo caduti molte volte. Per farcela, ci insegnano i grandi del Novecento, bisogna esercitarsi a osservare con humour l’antilogica che governa le vite umane e divertirsi distillandone il grottesco. L’osservazione e poi la distillazione dell’essenzialità, fino alla percezione fisica della vacuità e dell’interdipendenza di tutte le cose, è il lavoro che apre l’accesso all’arte maggiore, l’arte di vivere.

NOTE

  • Grotowski ne parla spesso, e Antonio ce lo fa riscoprire: cfr. A. Attisani, L’arte e il sapere dell’attore, Accademia University Press, Torino 2015, pp. 365-383.
  • Thomas Bernhard nel 1976 gli dedicò appunto Minetti, ritratto di un artista da vecchio, oggi incarnato da Herlitzka al Teatro Argentina e così raccontato dal regista Roberto Andò: “l’attore è per Bernhard l’eroe del fallimento e dell’occasione mancata. Si può anzi dire che Bernhard privilegi il teatro perché vi riconosce qualcosa d’indifendibile, e che lo abbia scelto in quanto è un luogo a perenne rischio di frode. Allo stesso titolo, si può dire che egli abbia amato gli attori in quanto esseri capaci di vivere sino in fondo il rischio, la frustrazione e la prossimità alla follia” (<http://www.teatrodiroma.net/doc/4779/minetti-ritratto-di-un-artista- da-vecchio>).
  • A. Attisani, Teatro Paradiso. La poesia e il sapere della sconfitta, in corso di pubblicazione; ma v. anche La tenda. Teatro e conoscenza. Dialogo fra Antonio Attisani e Carlo Sini, Jaca Book, Milano 2021.
  • Richard Schechner, La cavità teatrale, De Donato, Bari 1968; l’aureo libretto “alternativo” raccoglieva sei saggi apparsi della “TDR” di New York, fra cui il celebre Sei assiomi per l’Environmental Theatre dello stesso Schechner e in particolare L’architettura teatrale come derivazione della cavità primaria dello psicanalista newyorchese Donald M. Kaplan (pp. 73-108).
  • Iva Hutchinson, ex moglie di Benno Besson, dopo aver lavorato con Bertolt Brecht al Berliner Ensemble, esperta del metodo Horst Coblenzer e Franz Muhar, nel 1965 entra a fare parte della più ricordata, “storica” pattuglia di docenti della Scuola del Piccolo Teatro (dal 1987 Civica “Paolo Grassi”); cofondatrice del Teatro del Sole con Antonio Attisani e con il secondo marito Carlo Formigoni, nel 1991 segue quest’ultimo in Puglia, a fondare il “Cerchio di gesso”.
  • Cfr. Jean-Luc Nancy, Corpo teatro, Cronopio, Napoli 2010.
  • Cfr. Paul B. Preciado, Sono un mostro che vi parla, Fandango, Roma 2021.
  • Cfr. A. Attisani, Solomon Michoels e Veniamin Zuskin. Vite parallele nell’arte e nella morte, Accademia University Press, Torino 2013.
  • Si tratta di una fontana ornamentale, dono della “Famiglia Artistica” alla città di Milano, che si trova nel campo giochi dei giardinetti spartitraffico di Corso Indipendenza: opera in bronzo di Attilio Fagioli (1877-1966), più realistica di quella realizzata a Collodi da Emilio Greco, fu inaugurata il 19 maggio 1956 e subito chiamata il Pinocchio della Madonnina. In effetti il pilastro che sorregge Pinocchio reca una frase che però non è di Collodi, ma del poeta Antonio Negri: “Com’ero buffo quand’ero un burattino! E tu che mi guardi, sei ben sicuro di aver domato il burattino che vive in te?”. L’opera subì nel tempo vari danneggiamenti: nel 2004 il Gatto era stato rubato (rimanevano solamente le impronte delle zampe) e il naso di Pinocchio era stato staccato; riportata alle condizioni originarie, è stata di nuovo inaugurata il 18 dicembre 2013.

 

“Smettetela di prendervi troppo sul serio”

Intervista con César Brie realizzata a Vicenza il 28 novembre 2021.

 

– La prima cosa che mi ha colpito quando vi ho visti in scena è stata come vi facevate del male reciprocamente; mi ha dato da pensare a quella cosa che nel medioevo si chiamava charivari. Mi ha fatto un po’ male questa cosa, dire: guarda come si massacrano; capisco che in teatro bisogna passare per quelle cose lì, però all’inizio voi che vi maltrattavate… Che impressione ti fa prendere così a calci la tua vecchiaia?
– Non ho mai pensato di prendere a calci la mia vecchiaia. Scrivere e fare Boccascena è stato un atto estremo, doloroso, ma anche un grande divertimento. Fra Antonio e me non esisteva questo tipo di dialogo, prima. Lui non ha mai riconosciuto di essere il mio maestro, in passato mi ha dimostrato rispetto e ammirazione, però non sono mai stato un santo di sua devozione. Ritrovandoci da anziani, quando è iniziato il Covid ho cominciato a scrivere per invogliarlo. Stava vivendo un periodo difficile della sua vita e ho pensato di doverlo fare. L’ho riscoperto, ritrovato, passavo momenti meravigliosi a dialogare con lui. Con Antonio anche quando perdi tempo impari qualcosa. C’è sempre un pensiero vivo in lui. È sempre concentrato su qualcosa, non ti puoi annoiare con Antonio.
Ho iniziato io, in realtà: le prime cose Gatto/Volpe le ho scritte io, gliele ho mandate scherzando – nemmeno ricordavo il suo passato di attore, anche se avevo letto il libro Nel mare del teatro (1). Mi ha risposto prima con alcune riflessioni e poi con frammenti; con la sua fissa per la precisione, mi correggeva ogni errore ortografico e di sintassi (io sono madrelingua spagnola…). Finché non è diventato un vero dialogo. Mi sono accorto che era diventato importante per lui perché quando per tre giorni non ho scritto una riga, mi è arrivata una sua lettera: “Non ti fermare!”. Quindi lui ne aveva bisogno, io ne avevo bisogno; il primo periodo della pandemia è stato fondamentale. Il dialogo è diventato il testo. Poi abbiamo ridotto le ottanta pagine iniziali a quaranta. Sempre prendendoci per il culo, con tutta la cattiveria che è possibile solo se c’è altrettanto amore. Credo che la crudeltà sia una delle forme in cui si esprime la pietà in arte: la nostra crudeltà ha a che vedere con questo. E credo che sia stato un esercizio di sincerità che nessuno dei due da solo sarebbe riuscito a fare. Lui nello spettacolo mi dice: “Sei innamorato del tuo passato, è quello che ti frega”; e ha ragione, perché io rifarei tutto quello che ho fatto. Con meno errori, ma lo rifarei. Io ho un rapporto emotivo con il mio passato e lui è sarcastico, quindi ci aiutiamo: io a essere meno enfatico e lui a scoprire i lati più dolorosi.
Ad esempio in una scena lui racconta del suo matrimonio finito, e fa un esercizio di onestà estremo. Ci sono alcune frasi scritte da lui che mi toccano profondamente, come: “Le più belle lettere d’amore che ho mai letto sono quelle che scriveva all’uomo della sua vita mentre lo tradiva con me”. Con lui, marito. Quando abbiamo cominciato a provare, a un certo punto mi ha detto: “Mi fa soffrire, dire queste cose”. All’inizio era così, però adesso sento che gli fa bene. Quella scena dentro lo spettacolo è commovente: arriva lei, la musicista, con un vestito bianco, un’immagine quasi asessuata, ma è una donna, una giovane, e lui le tocca il vestito, la abbraccia; lei prima si appoggia a lui, poi gli dà un bacio e se ne va. E quest’uomo che parla di un amore passato veramente ti dà l’essenza di quella solitudine. È una scena che ogni volta che la fa mi fa venire i brividi. Ed è così semplice.

– Sì, quella parte lì dello spettacolo è… Mi chiedevo, quando hai organizzato la scaletta, se l’hai voluta proprio, o se è andata così e basta: perché è come se Antonio, da una rigidità, dalla schermaglia iniziale, un po’ alla volta prendesse lui la scena; particolarmente in “Ferite” e in “Patologie”. Lì viene fuori tutto: la carne dello spettacolo; questo si vede proprio.
Però non sono sicurissimo che sia il primo valore dello spettacolo. Forse è la benzina per voi attori, ma per chi vede, il dettaglio autobiografico non corrisponde sempre a un valore aggiunto…

– Ma è un paradigma. Se tu guardi la scena, senza pensare ad Antonio, vedi un anziano che ricorda un amore di gioventù. E questo appartiene a tutti, perché nei ricordi dei vecchi sono più le cose che hanno perso di quelle che hanno ottenuto.

– Allora torniamo alla vecchiaia. Uno spettacolo è un po’ sempre un bilancio di vita, anzi, tu hai cominciato così: A rincorrere il sole era già il bilancio della tua vita in quel momento. Allora in che modo questo bilancio è diverso da tutti gli altri? Voglio dire: l’età che cosa aggiunge a questo percorso che avete fatto voi due – che non sia solo l’accumulo delle esperienze, e quel po’ di comprensibile reducismo?
– Forse bisogna chiederlo ai giovani, che cosa ci vedono. A me forse è servito per accorgermi di essere vecchio. Non me ne rendevo conto prima. Per me è un grande esercizio di sincerità…
Tocchiamo tutti i temi che ci assillano. Che cos’è la vocazione… Quando abbiamo cominciato a dialogare avevo già pensato alla coppia Gatto/Volpe e quindi dialogavamo come Gatto e Volpe, dei temi che interessano ora all’uno ora all’altro. All’inizio, lui mi mandava alcuni pensieri, e io trasformavo i pensieri in dialoghi.

– Dunque lo spettacolo non è nato già con l’intenzione di fare, come dire, un attraversamento delle vostre vite…
– Inizialmente si saltava di palo in frasca, anche se il testo ha cominciato presto ad assumere questo aspetto.
Da molto tempo volevo raccontare la storia di A rincorrere il sole (2),  perché quel lavoro mi ha cambiato la vita. Ci mettevamo anche le riflessioni di Antonio sul decentramento. Lui ha fatto l’attore prima di me, con la sua compagnia facevano il vero decentramento. Io sono arrivato quando il decentramento stava fallendo, per me era un programmare cose senza senso in luoghi senza senso. Come quando si portava il nostro spettacolo, L’esodo dal pollaio (3), in un manicomio. Ma Antonio aveva un’altra esperienza del decentramento. Da questa nostra discussione è nata la poesia Sono attore e non lo so, non lo so cosa farò.
Anche la sua critica contro il teatro impegnato in parte mi trova in disaccordo. Non ho mai cercato di giustificare il mio teatro per i temi che ho affrontato, però in certi momenti ho affrontato temi politici. È questo rapporto con la politica che ci trova un po’ in disaccordo, nel senso che io l’ho sperimentato facendolo attivamente, anche rischiando di persona – sicuramente con i documentari (4), ma anche con qualche spettacolo. Quando ho fatto il lavoro sul terremoto, (5) ho denunciato la casta militare della Bolivia. Un generale mi ha chiesto: “Vuole protezione?”. Gli ho risposto: “Generale, i fascisti non vengono a teatro; non si preoccupi, non verranno mai a saperlo”. Li avevo denunciati con nomi e cognomi: avevo scritto un informedove c’erano i nomi di tutti loro. Ventidue pagine di nomi, cognomi e cose fatte.
Un informe, un libriccino che consegnavamo al pubblico: un editore me l’ha pubblicato gratis. Si intitolava Il terremoto della corruzione, quindi insieme a Dentro un sole giallo, un lavoro poetico in cui parlavamo del terremoto e della corruzione, sfioravamo appena la controinformazione. Io tendo a dividere le cose: quando faccio controinformazione faccio controinformazione, però quando faccio teatro, faccio teatro. Nel teatro c’era la poesia e anche l’informazione, ma nella controinformazione c’erano i dati completi. Così non ero obbligato a mettere in scena tutto.
Ho sempre avuto questo doppio rapporto con il teatro politico. Nella bellissima poesia La terra di lavoro, Pasolini scrive una frase per me folgorante: “Anche la tua pietà è loro nemica” (6). Cioè anche se ti importa parlare di loro, a loro non gliene può fregare di meno. La loro realtà non viene toccata dal tuo lavoro di poeta, dal tuo lavoro artistico. Nella poesia che abbiamo scritto in quella scena, dico:

…Se ti racconto il dolore di persone senza pace,
applaudi me, l’avvoltoio. Hai bisogno del rapace
che col dolore del mondo il salario si guadagna.
È commercio, caro mio. La denuncia è ben pagata.
Con la scusa di educare, io guadagno soldi e fama…

È un testo nato da un lungo discorso sul decentramento. Avevo cercato di trasformarlo in poesia e Antonio mi aveva risposto: “Non mi interessa”; ho continuato per conto mio a farla, quella poesia, finché è venuta così. E quando gliel’ho mandata, lui: “Questo è anche bello. Bravo! Hai visto meglio di me”. C’era qualcosa sotto questi argomenti che a lui non interessavano più. Eravamo partiti dal rapporto fra politica e teatro e siamo arrivati alla poesia sull’attore.
La danza, poi, che faccio mentre dico la poesia è un adattamento da Allegri vagabondi di Stanlio e Ollio… C’è quella scena in cui arrivano al saloon e un gruppo dei cowboys cantano una specie di jodel del West e loro che cominciano a danzare… (si alza ed esegue). La danza l’ho presa da loro, l’ho adattata al testo e poi l’ho cambiata. Faccio anche il tip tap e faccio danzare Antonio: è uno dei pochi momenti in cui si alza dalla sedia a rotelle. Per cui questi nostri disaccordi venivano anche sanciti, nel testo. I momenti di concerto invece sono pochi. Uno è rimasto, ho voluto che fosse così, ed è un ricordo di infanzia di Antonio, che mi tocca tantissimo, potrei sottoscrivere ognuna di quelle parole.

Dicono che quando si muore, la mente precipita all’infanzia… Avevamo paura della mediocrità, dell’adattamento. Era una felicità piena di presagi. Passavamo i pomeriggi in una periferia piena di alberi carichi di frutta acerba da rubare… Avevamo paura della mediocrità, dell’adattamento. Quella è stata la nostra forza. Ci è servita per affrontare questa corsa scomposta e coatta che ci ha portato in questo teatro… Com’è diverso il suono della giostra quando finalmente la vedi e cominci a tirare la mano di chi ti accompagna, quando sali sul camion dei pompieri o sull’auto da corsa, quando sta per finire l’ultimo dei giri che ti hanno concesso… E quando te ne stai andando, e senti le voci dei bambini arrivati dopo di te. La partitura si chiude così.

E poi aggiunge: “Ma perché non si può morire in sobrietà ed eleganza?” e lì riprendiamo il battibecco, quando mi chiede di aiutarlo a morire. Quel pezzo lì, quel concerto, è un testo di Antonio. E io avevo provato con altri testi a fare concerto, ma non funzionavano, era meglio battibeccarci.
Invece di fronte alla morte arriva questo ricordo dell’infanzia che ci redime, perché noi eravamo già quelli che siamo stati dopo. Eravamo già da piccoli così.
Io questo lo sento profondamente, sai? Io sento che ho realizzato qualcosa che intuivo da bambino, in modo molto più doloroso di quanto immaginavo sarebbe stato vivere – se mai si può immaginare come sarebbe vivere. Però, in questo testo di Antonio ho riconosciuto quella caparbietà, quell’etica che sin da piccoli già ti porta verso una strada, e che ti fa scegliere. Ti fa anche sbagliare, ma ti fa scegliere.

– Sì, questo ritorno all’infanzia l’ho vissuto tantissimo nella scena in cui parlate alle parti del vostro corpo… perché mi immaginavo il neonato, sai, che si mette in bocca la manina, il piedino… perché ancora non ha messo insieme tutte le parti… ed è come se da vecchi un po’ quelle stesse parti che ci hai messo tutta la vita per cercare di metterle insieme, per riuscire a dire “Io”, ricomincino a disassemblarsi, e allora devi riconoscerle, una alla volta: cazzo, ma una volta non eravate tutte insieme?
– Con accenti diversi: perché per esempio le mani a lui ricordano i libri e le pagine sfogliate, io ricordo le seghe fatte…

– E quando parlate del pene, dici: “Credevi di essere Zorro, e invece…
– “…e invece sei solo il sergente Garcia”.

– Come è nata quella scena, questo inventario del corpo? Vi siete detti: facciamo una scena in cui ci congediamo da…
– No: gliel’ho proposto io. Un addio al corpo: gliel’ho proposta io come idea. Salutiamo. Cosa? Il corpo, dai. Noi stessi, per cominciare. Però una volta che ingrani, cominci a buttare giù. Infatti, lui dirige le battute solo quando parla della mente: “La mente” e poi mi guarda e dice “Tu lascia perdere” (ride). Infatti a volte mi succede quando parlo con Antonio. Una parte di me fa finta di capire, un’altra si chiede: “Ma che cazzo ha detto?”. Non capisco perché è un po’ troppo profondo per me; però diciamo che anche in quel caso esiste un canale di comprensione fra di noi.
La cosa che mi ha stupito quando l’ho rincontrato è che eravamo arrivati a conclusioni molto simili sui problemi del teatro percorrendo due vie totalmente diverse. Quando lui parla di composizione, di musica, di poesia, quando parla di questa grande armonia che finisce in quella cosa che lui chiama musica e che è il teatro… e io quando insegno ai miei allievi a non recitare, a non essere contenitori di testi, ma a essere se stessi, a comporre, a pensare la scena, a essere poeti del loro lavoro, a usare il corpo e la voce… È come se lui per una strada tutta sua di riflessioni fosse arrivato a una idea di teatro e io, per la strada della pratica – dovrei dire forse di onestà nel fare, di non farmi ingannare dalle lusinghe, dai successi, dalle cazzate che affollano il teatro – fossi arrivato a conclusioni che ci vedono d’accordo. Non siamo d’accordo in tutto, però c’è una grande armonia in questo.
Infatti stiamo varando un grande progetto che chiamiamo “Transteatro”: abbiamo deciso di lavorare con una quindicina di giovani professionisti a due progetti di spettacolo. Queste attrici e attori dovranno scrivere, dirigere, creare immagini, cantare… Noi saremo le loro guide, però l’idea è di aiutarli in un percorso di alta formazione a tutto il teatro: drammaturgia, recitazione, musica, canto… la danza, azioni, immagini, metafore. Tutto. Insegnare a comporre. E intanto rischiando insieme. Noi avremo un ruolo di orientamento, perché siamo più vecchi e in qualcosa più esperti; però loro ci devono sorprendere. Anche questo progetto ci trova molto d’accordo.

– Si vede che giocate a sorprendervi, in scena, sia come autori che come attori… si vede che è un gioco, non so se dichiarato o meno, ma che funziona… Mi pare che questo sia proprio il cuore: che cosa ha “generato” questo percorso.
Ma adesso vorrei parlare un po’ anche della forma e, diciamo, di come la state sviluppando. Perché appunto, non per fare accademia, ma è chiaro che la coppia che rappresentate, Gatto/Volpe, dei due che bisticciano epperò si sentono necessari l’uno all’altro, ha diversi modelli sullo sfondo, che se anche non avete avuto in testa voi, comunque li ha lo spettatore nella sua.
Uno è Beckett: la prima cosa che mi è venuta in mente, ma non quando vi ho visti, ancora prima, quando vi ho letti, quando Antonio mi ha mandato per la prima volta il copione in progress. Però poi, siccome in certi momenti si ride anche di gusto, mi vengono in mente invece delle coppie più classiche, Don Chisciotte e Sancho Panza, Don Giovanni e Leporello, quelle coppie che alla fin fine sono un’unica realtà, un unico mondo che però si manifesta in due personaggi antagonistici: insomma nell’ossimoro. Nello sviluppare il testo, e poi la messinscena, vi siete mai misurati con queste immagini? Oppure man mano che è cresciuta la scaletta, che avete articolato la scrittura, quelle analogie sono cresciute da sole?

– Non ci ho mai pensato, almeno io. L’unica cosa che ho pensato, quando lui ha cominciato a rispondermi, è come essere crudeli, davvero, come scannarci. Era divertentissimo.
Una delle ultime conversazioni fra Antonio e me, prima della pandemia, è stata sul fine vita. Non che abbiamo parlato esplicitamente… no… però il tema – lui era stanco delle sue malattie fisiche e questa umiliazione della malattia fisica…

– Lo dice, nello spettacolo…
– Lui lo dice, sì. E allora io ho reagito da vecchio: “Sì, ci sono”. Ma poi, quando ci siamo incontrati a dialogare, allora abbiamo cominciato a prenderci per il culo, e quindi… “Cosa dovrei fare? Cercare un pitbull affamato che ti sbrani sulla carrozzella?”.

– Sì, quella scena è ferocissima.
– “Due cose mi fanno paura…”
“Beato te”.
“La prima: non riuscire a badare a me stesso, la seconda, il dolore”.
“Allora il pitbull non va bene. Uno sparo alla nuca mentre guardi la partita?” “Niente sangue, niente violenza!”
“Allora vuoi una morte da film. Musica di sottofondo e lacrimucce…” “Anche lo stereo spento va bene. Risparmiami le lacrime”.
“Cosa vuoi?”
“Non voglio sentire dolore”.
“Troppo facile, vecchio mio. Anche morire è un lavoro”.
Lì inizia l’unico momento di concerto.
“Dicono che quando si muore, la mente precipita all’infanzia”. E quindi ricordiamo una infanzia – la sua, nella quale riconosco la mia. Alla fine, lui dice: “Perché non si può spegnere la luce?” “Si può, nella stanza accanto, quella delle maschere”. “Le abbiamo già”. “No: mancano quelle della malattia”. Perché la malattia è la maschera del vecchio, per andarcene noi dobbiamo ammalarci. E quindi lui dice: “Ah, io ho questa” “Splendida”, come se fosse una maschera di teatro. E io ho trovato una maschera, una pinza, quella per togliere le adenoidi (7), che mi apre la bocca così (mostra come deforma la voce e il volto), questa è la maschera… Concludiamo così, con tutti i denti rovinati che ho…
Ma poi ci vestiamo da sposo e da sposa. Le lasciamo lì, le maschere della malattia. E in questa scena, l’ultima, usciamo, lui vestito da sposa io da sposo, ci prendiamo a braccetto, attraversiamo questa porta di pioggia – perché ovviamente a due sfigati deve pioverci sopra (ride).

– A Stan e Oliver sarebbe successo di sicuro.
– E lì, quando siamo di fronte al pubblico, ci guardiamo, di nuovo lui torna a guardarmi in cagnesco e ci separiamo, ma nel separarci ci teniamo per mano, finché alla fine le loro mani si staccano. Si muore soli.

– Su cosa state lavorando adesso? Oltre a consolidare quello che avete già fatto, state ancora costruendo, modellando lo spettacolo; oppure è arrivato, è così? Scommetto che Antonio premerebbe per cambiare ancora…
– Lui cambierebbe ogni giorno e io lo contengo. Dico: “Calma. Impariamo quello che abbiamo, lo eseguiamo. Quando diventa organico, cambieremo quello che non funziona”. Quindi continueremo a cambiare fino all’ultimo giorno di lavoro.
Poi dobbiamo lavorare sulla figura di questo “servo di scena”, la musicista, che è una idea di Antonio; in fondo è lei che rimane, no? Alla fine, ha qui appeso il cartello che dice: “Buio”, ce l’ha sulla schiena: lei suona, rimane da sola in scena, poi si gira, e mostra il cartello, nero, con scritto “Buio” in lettere bianche (mentre tutti gli altri sono cartelli bianchi con scritte in nero) e rimane lì, finché la luce si spegne.
Per il resto, abbiamo lavorato più di un anno a dire il testo, e ora lo sappiamo a memoria veramente bene; ormai dobbiamo far finta di non ricordarcelo, il testo, per dare l’idea di…

– Quanto funzionano le cose che non funzionano: quando te le dimentichi, con lo spettatore. Sarebbe da riuscire a farlo apposta…
-Questo, è l’attore…
L’altra cosa è che Antonio è cambiato tantissimo con il corpo. Io lo avevo messo in sedia a rotelle, così lo potevo scarrozzare e lui non aveva bisogno di fare niente. Ma adesso… La prima volta che sono entrato come prete per fargli fare la processione, gli schiaffavo la croce addosso, gli prendevo le gambe e gliele mettevo qui, così (indica il bracciolo della sedia) e lui, pur sforzandosi, non ce la faceva. Adesso invece entra il prete e lui zac (mostra), è già in posizione. È diventato agilissimo. Quindi ha cominciato a usare il corpo come attore. Ed è un bravissimo attore.
Ricordo il primo giorno che abbiamo provato insieme, quando lui sale sul palcoscenico, faceva finta di essere vecchio. E io gli ho detto: “Antonio, che cazzo stai facendo? Sei un vecchio. Non devi entrare facendo finta”.

– Ecco vedi, è questa cattiveria il propellente dello spettacolo.
– Per cui ci siamo anche divertiti in questo. Ogni tanto lui mi dice “No, bisognerebbe avere un regista”. Io un po’ mi offendo. Ma non nel senso…

– Ma perché, Antonio non ti riconosce questo ruolo?
– Sì, sì, poi dice: “Sei tu il regista”. Fa il doppio gioco… Lui lo dice: bisogna avere anche un occhio che ti aiuti. Ma io sono abituato a dirigere me stesso. In cinquant’anni ho sviluppato la capacità di vedermi. L’unica cosa di cui ho bisogno è che, se faccio l’attore, non mi devo occupare delle cose del regista. Per godermi la scena, no? Quindi adesso faccio l’attore, dopo mi metto a guardare, controllare e sistemare. Devo cercare di non confondere le energie, che sono molto diverse. Mentre l’energia dell’attore è appagante, l’energia del regista è stancante. È diverso, anche a livello mentale: non è dare, un sacrificio, l’energia del regista è compositiva. Quindi devo fare attenzione a non sbagliare e recitare mentre faccio il regista.

– Perché Boccascena? Antonio è la Bocca è César è la Scena? Guarda che stupida idea mi è venuta…
– Questo è un pallino suo. In spagnolo io l’avrei intitolato Telón, che vuol dire ‘sipario’. Ma a lui non piace la parola ‘sipario’, (8) sennò l’avremmo intitolato Sipario.

– In effetti, parlando di bilanci, di vecchiaia, di morte, sarebbe pesante come metafora…
– Lui ha voluto chiamarlo Boccascena, che è un’altra forma, in fondo, di dire ‘sipario’. E io ho accettato. Però in spagnolo telón è bella.

– Anche in italiano è bellissima, piena di storia, di movimento, di destino. Nella mentalità popolare il sipario è l’emblema di una cosa che comincia e che finisce. E anche l’ordine, il grido per farla cominciare o finire…
– Ma per lui forse ha più un senso lugubre e in fondo lo spettacolo, anche se tocca tutti questi argomenti non è lugubre, è molto divertente. Io sentivo la gente ridere.
Il giorno che c’eri tu, a Bologna, sono sceso fra il pubblico. Ho messo il naso di Pinocchio a Marco De Marinis (ride).

– Bene. Mettiamo agli atti anche questo. Ma scusa, visto che ne parliamo: perché ucciderlo, Pinocchio? Cos’ha fatto di male?
– È diventato un bravo bambino.

– E cosa c’è di male a diventare un bravo bambino?
– Insomma basta: non se ne può più (ride). Gatto e Volpe impiccano Pinocchio. Lui, poi, è di legno, e non soffoca, però viene impiccato. Loro credono di averlo ucciso. Anzi: lui viene portato dai medici, no? “A mio credere il burattino è bell’e morto: ma se per disgrazia non fosse morto, allora sarebbe indizio sicuro che è sempre vivo!”. Noi lo dobbiamo ammazzare Pinocchio. Ammazzare il conformismo.

– Amen. Non so più come finire questa intervista: il taglio per così dire ‘giornalistico’ non mi soddisfa, mi avete coinvolto fin dal principio molto di più che come semplice curatore del libretto di sala, e adesso…
– Beh, ci sarebbe ancora questa figura di Tiresia Banti. Ti ha detto Antonio chi è Tiresia Banti?

– Sì, sì, me l’ha detto, ma dimmelo anche tu.
Tiresia Banti è diverse cose. Da un lato è… (mi sussurra il primo segreto di Tiresia Banti).
Ma Tiresia Banti è anche Vittorio Cosentino (9), questo attore clochard di Bari che era finito a Napoli e che è morto per strada; faceva teatro per strada, con la gente. Antonio lo aveva conosciuto agli inizi, quando era con il Teatro Kismet.

– Infatti nello spettacolo muore nella casbah
– È proprio morto nella casbah, avvolto in una coperta, con a fianco la sua valigia di pupazzi e maschere. Ma quando raccontiamo di lui che chiede le illuminazioni ai maestri, in realtà Tiresia Banti è anche Leo Bassi (10). Quando veniva invitato ai festival, Leo chiedeva a tutti: “Mi scrivi una frase?” Io gli ho risposto di non rompere: “Non prendermi per il culo”. Si è messo a ridere. Però lui andava da Eugenio Barba, o da altri, e gli chiedeva: “Una frase, maestro”. E loro gliela scrivevano. Leo Bassi appartiene a quella genìa di artisti di strada che sta scomparendo – o che sta rinascendo nei nuovi acrobati. Quella vecchia scuola è stata straordinaria.

– Quella volta che sei venuto a Vicenza con A rincorrere il sole, nel 1977, avevo organizzato una rassegna di tre spettacoli; il secondo era proprio Il circo più piccolo del mondo di Leo.
– Un giorno ho visto Leo che mostrava a Bustric (11) un vecchio manifesto, di un teatro cabaret appeso a Santarcangelo, e gli diceva: “Vedi, come siamo finiti a fare i piccoli intermezzi…”. Era molto toccato, si riconosceva in una tradizione che stava scomparendo.
Perché Tiresia Banti sarebbe anche un cantore popolare:

Allo specchio, con forbici dorate,
i peli del naso tagli con maestria.
Dentro pratiche camicie colorate
la fatale pancia in prigionia.
Corri in palestra, all’alba, per gonfiare
con esercizi la muscolatura
che in cattedra non serve per spiegare
le tue geniali idee sulla cultura…

È una vecchia poesia che avevo scritto per un famoso regista: ora l’ho curata, è in endecasillabi, e la firma lui. Anche questo è Tiresia Banti.
Quello che ricorda a professori e santoni: smettetela di prendervi troppo sul serio.

 

NOTE

  1. Antonio Attisani, Atto secondo. Nel mare del teatro (1966-1993), Torino, CELID, 2018.
  2. Lo spettacolo, sulla sconfitta ideale e politica di una generazione (Milano, Centro Sociale Isola, 1975, Collettivo Teatrale Tupac Amaru), è il primo che César scrive, dirige e interpreta dopo essersi rifugiato in Italia e successivamente staccato dalla Comuna Baires; v. il romanzo autobiografico dei suoi primi quattro anni di apprendistato nel teatro, fra Argentina e Italia: C. Brie, La vocación, Plural Editores, La Paz 2007.
  3. Spettacolo del 1978 in cui recitavano, oltre al nostro, Dolly Albertin, Danio Manfredini, Simon Goldstein, Antonio Nunziante, Miriam Bardini, e qualcun altro di cui César non ricorda il nome.
  4. Humillados y ofendidos (2003, regia di C. Brie, montaggio di Javier Alvarez, musica di Pablo Brie), sul pestaggio e umiliazione di nativi a Sucre, in Bolivia, del 24 maggio 2008; Tahuamanu, morir en Pando (2008, regia di C. Brie e J. Alvarez, musica di Manuel Estrada) su un’altra strage di campesinos, l’11 settembre 2008.
  5. Lo spettacolo, En un sol amarillo (2004), dello stesso César, col Teatro de Los Andes, racconta il terremoto del 22 maggio 1998 ad Aiquile in Bolivia e la corruzione che fece seguito alla ricostruzione; il testo si trova ora in C. Brie, Dentro un sole giallo. Memorie da un terremoto, traduzione e cura di Silvia Raccampo, interventi di C. Brie, Lupe Cajías, Fernando Marchiori, Silvia Raccampo, fotografie di Rodoslav Pazameta, Corazzano (PI), Titivillus, 2005.
  6. “Nemico è oggi a questa donna che culla / la sua creatura, a questi neri // contadini che non ne sanno nulla, / chi muore perché sia salva / in altre madri, in altre creature, // la loro libertà. Chi muore perché arda / in altri servi, in altri contadini, / la loro sete anche se bastarda // di giustizia, gli è nemico. / Gli è nemico chi straccia la bandiera / ormai rossa di assassinî, // e gli è nemico chi, fedele, / dai bianchi assassini la difende. / Gli è nemico il padrone che spera // la loro resa, e il compagno che pretende / che lottino in una fede che ormai è negazione / della fede. Gli è nemico chi rende // grazie a Dio per la reazione / del vecchio popolo, e gli è nemico / chi perdona il sangue in nome // del nuovo popolo”; da P. P. Pasolini, La terra di lavoro (1956), in Le ceneri di Gramsci, Garzanti, Milano 1957.
  7. L’adenoidectomia viene eseguita oggi attraverso la bocca o il naso mediante currettage (raschiatura) o ablazione con uno strumento diatermico che sfrutta il calore; l’attrezzo vintage descritto da César pertanto presenta un non trascurabile fascino orrorifico per quelli della nostra generazione, per cui l’asportazione di tonsille e adenoidi era quasi di routine.
  8. Nel 1976, quando “Sipario” è forse l’unica rivista professionale di teatro, Antonio ne fonda un’altra di movimento che, ça va sans dire, si chiama “Scena” (la lascia nel 1981 per dirigere il Festival di Santarcangelo).
  9. Classe 1950, “calabrese di origine, studente fuorisede a Bari dove, come amava raccontare, ‘aveva fatto il ‘68’ […] negli ultimi anni era stato a Napoli, dove regalava Shakespeare – che amava in modo particolare – e Molière ai passanti. Ormai era un’icona in Piazza San Domenico Maggiore dove in tanti, studenti, turisti e curiosi, si fermavano ad ascoltarlo. Vittorio è stato trovato senza vita ieri, a Napoli, nell’ex Caserma Rossani, struttura da tempo rifugio di senzatetto e attività sociali. A portarlo via, pare, sarebbe stato il Coronavirus”; Addio a Vittorio Cosentino, l’attore di strada che recitava Shakespeare a piazza San Domenico Maggiore, “Napoli Today”, 22 marzo 2020.
  10. Nato negli Stati Uniti nel 1952 da una famiglia di circensi di origini italiane, è antipodista, giocoliere e comico; dopo aver risieduto a Milano, oggi vive in Spagna e porta ovunque nel mondo one man shows con i quali fra multilinguismo, virtuosismo e giochi di partecipazione col pubblico si è progressivamente guadagnato l’attenzione internazionale coi temi dell’ambiente e dell’integrazione (il suo primo spettacolo si intitolava Il circo più piccolo del mondo, l’ultimo Utopia).
  11. Sergio Bini in arte Bustric (Firenze, 12 aprile 1953), mimo della scuola Decroux, laureato al Dams di Bologna dove negli anni Settanta si è fatto la fama di attore solitario e svagato poeta, con il tempo ha esteso la propria attività al cinema e alla televisione; in teatro ha tuttora una sua compagnia per la quale compone e dirige spettacoli comici che porta in tutta Europa e Sud America.

 

 

 

Fotografie di Paolo Porto.

Carlo Cecchi e Eduardo

La Stagione dei Teatri 2021/2022
Dolore sotto chiave / Sik Sik l’artefice magico di Eduardo De Filippo e con Carlo Cecchi
20-23 gennaio 2022, Teatro Alighieri

 

Presentazione di Dolore sotto chiave / Sik Sik l’artefice magico per La Stagione dei Teatri 2021/2022, a cura di Alessandro Fogli.

fotografia di Matteo Delbò

Il pubblico ravennate ha potuto apprezzarlo l’ultima volta nel 2015 – quando al Teatro Alighieri fu interprete e regista dello shakespeariano La dodicesima notte – e ora Carlo Cecchi torna in città alle prese con Eduardo De Filippo e due piccoli gioielli dell’assurdo quali Dolore sotto chiave e Sik Sik l’artefice magico. Un legame che viene da lontano, quello con Eduardo, con cui Cecchi lavorò nel 1969 all’inizio della sua carriera ma che dopo un burrascoso periodo decise di lasciare. Dopo qualche tempo però i due si riappacificarono e adesso – come ha raccontato lo stesso Cecchi anche in una recente intervista – l’attore ricorda ancora quei momenti con molto piacere.

Attore (con all’attivo anche tantissimi film) e regista, il fiorentino Carlo Cecchi è un vero e proprio maestro del teatro che ha attraversato il Novecento, e confrontarsi con lui significa confrontarsi con un repertorio di spettacoli non solo sconfinato a livello numerico ma anche (e soprattutto) estremamente composito, che va da Shakespeare alla farsa dialettale napoletana, da Molière all’ottocentesco Büchner, da Majakovskij a Brecht, da Pirandello ad alcuni dei massimi autori contemporanei quali Beckett, Pinter, Bernhard.

È interessante però scoprire cosa scrive di Cecchi Claudio Meldolesi – il nostro maggior storico teatrale del secondo Novecento – nel suo Fondamenti del teatro italiano: «Cecchi mi ha detto “io non faccio parte del teatro italiano”».

«Questo teatro italiano al quale Cecchi rivendica polemicamente di non appartenere – spiega Marco De Marinis, che con Cecchi sarà in dialogo nell’incontro con il pubblico di sabato 22 gennaio – è in buona sostanza il teatro di regia, quello che agli inizi degli anni Sessanta, quando egli comincia il suo percorso artistico, è al potere alla testa degli Stabili (non a caso il nome che sceglie nel ’68, sembra su consiglio dell’amica Elsa Morante, per il suo gruppo – inizialmente denominato Compagnia del Porcospino – costituisce l’ironico rovesciamento di uno dei teatri leader del tempo, e anche adesso: Granteatro come il contrario del Piccolo Teatro e della sua estetica)». Il teatro di regia italiano è dunque avversato fin dagli inizi da Cecchi come un teatro «che nega in fondo se stesso – come afferma in un’intervista del ’97 – perché se neghi, impedisci agli attori di essere attori, neghi la possibilità stessa del teatro». Per poi chiarire: «Ero un attore che, certo di essere un attore, si è trovato dentro un teatro, che era il teatro dei primi anni sessanta […] che negava la certezza del mio essere attore». Spiega ancora De Marinis che per Carlo Cecchi «in questa progressiva presa di coscienza di una non-appartenenza, e soprattutto per l’elaborazione di una sua proposta fondata su presupposti radicalmente diversi, decisivi risultano tuttavia due apprendistati degli anni sessanta: quello con il Living Theatre e quello con Eduardo De Filippo». Il Living Theatre, come ebbe a scrivere Franco Quadri nel 1977, «gli ha insegnato il valore della partecipazione collettiva, la plasticità del gesto, l’esattezza dei ritmi vocali e dinamici, l’uso della sottolineatura sonora […] il senso dello spazio in cui lo spessore dei corpi si fa scenografia».

Carlo Cecchi. Fondazione Teatro Stabile di Torino, Associazione Teatro di Roma, Teatro Stabile delle Marche. La serata a Colono. 2013. ©fotografia di Mario Spada.

 

«Quanto a Eduardo De Filippo – illustra De Marinis –, definito dallo stesso Cecchi nell’81 “il massimo esempio di un teatro vivente”, è da lì “che consegue – secondo Quadri – il riconoscimento del ruolo e della preminenza dell’attore, accompagnato al gusto per il soggetto, all’immissione di antichi lazzi, alla sapiente rarefazione dei tempi, all’apprezzamento dell’importanza della contaminazione comica”».

Ed eccoci quindi a questi due atti unici eduardiani che Cecchi – insieme ad Angelica Ippolito (anch’ella parte della compagnia di De Filippo nei primi anni ’70), Vincenzo Ferrera, Dario Iubatti, Remo Stella e Marco Trotta – porta in scena all’Alighieri dal 20 al 23 gennaio. Dolore sotto chiave nasce come radiodramma nel 1958, andato in onda l’anno successivo con Eduardo e la sorella Titina nel ruolo dei protagonisti, i fratelli Rocco e Lucia Capasso. Con questo lavoro De Filippo torna a occuparsi del tema della morte, come aveva già fatto in tante sue opere, inscenando un gioco beffardo sul suo senso, ridicolizzandola, esorcizzandola, perché è anch’essa parte delle nostre esistenze e cercare di negarla significa negare la vita stessa. Sik-Sik l’artefice magico, atto unico scritto nel 1929, è invece uno dei capolavori del Novecento. «Come in un film di Chaplin – dice Carlo Cecchi – è un testo immediato, comprensibile da chiunque e nello stesso tempo raffinatissimo. L’uso che Eduardo fa del napoletano e il rapporto tra il napoletano e l’italiano trova qui l’equilibrio di una forma perfetta, quella, appunto, di un capolavoro». Sik-Sik (in napoletano, “sicco” significa secco, magro e, come racconta lo stesso Eduardo, si riferisce al suo fisico) è un illusionista maldestro e squattrinato che si esibisce in teatri di infimo ordine insieme con la moglie Giorgetta e Nicola, che gli fa da spalla. Una sera il compare non si presenta per tempo e Sik-Sik decide di sostituirlo con Rafele, uno sprovveduto capitato per caso a teatro. Con il ripresentarsi di Nicola poco prima dello spettacolo e con il litigio delle due “spalle” del mago, i numeri di prestigio finiranno in un disastro e l’esibizione si rivelerà tragica per il finto mago ma di esilarante comicità per il pubblico.

 

 

Un telegramma per Maurizio Cattelan

Fèsta 2021
HIM di Fanny&Alexander
21 dicembre 2021, Artificerie Almagià

 

Him

di Marco Cavalcoli

 

Il pezzo è tratto dal libro O/Z Atlante di un viaggio teatrale (Ubulibri, 2010) ed è il commento alla tavola fotografica che si vede nell’immagine. Il libro è una raccolta di saggi di differenti autori costruiti intorno a una serie di lemmi; i lemmi erano scelti da Luigi De Angelis e Chiara Lagani e venivano accompagnati a una tavola immaginale appositamente composta e poi attribuiti agli autori in forma di domanda: cosa significa questo lemma per te? Marco Cavalcoli ricevette la tavola «Him», il suo personaggio nell’omonimo spettacolo di Fanny & Alexander. Il testo che segue è la sua risposta.

 

Mi vergogno ad ammettere che non sono in grado di mantenere le mie promesse. Me la sarei voluta cavare con “Io è un altro”, ma che c’entra?
Quando Dorothy e i suoi amici arrivano per l’ultima volta al cospetto del Mago di Oz si rendono conto che il terribile Oz è un imbroglione che non sa fare magie. Lo accusano, pretendono che dia loro ciò che aveva promesso. “Non parlatemi di queste piccolezze”, risponde Oz, “pensate a me e al guaio terribile in cui io mi trovo. Io sono un attore.” Più specificamente, nello spettacolo di Fanny & Alexander in cui accade tutto questo, sono l’attore che impersona il Mago di Oz.

Il 24 aprile 2008 ho ricevuto una lettera. “Quando, nel 1933, Hitler prese il potere, io non avevo che sei anni e perciò nulla rammento di quel fatto. Però, non so quanto tempo dopo, avendo sentito il nome “Hitler” alla radio ed avendo chiesto ragguagli alla mia maestra, mi sentii rispondere con un tono che m’impressionò: “Ma come, è il Duce del grande Reich”. (…) Poi, lo vidi al cinema e mi colpì soltanto per il viso che mi parve enorme e per i baffetti … Ma, allorché avvenne lo “storico” viaggio di Hitler in Italia (…) fui mandato in un plotone, allora si diceva così, di Balilla, per festeggiare alla stazione di San Ruffillo il “trionfale” passaggio del convoglio che tanto rallentò cosicché lo vedemmo benissimo, serio in viso come tu all’inizio dello spettacolo: ebbene, io sussultai a vedere un’immagine così piccina.”
Qui sotto sono ritratti degli autori e degli attori. Io invece sono quello più in basso, con le fattezze che mi ha dato l’autore, in ginocchio nella sala vuota dal silenzio più terribile di qualunque forma.

Il 24 aprile 2010 Maurizio Cattelan ha ricevuto un telegramma. TI INVITO AGLI SPETTACOLI DI FANNY E ALEXANDER AL TEATRO I DI MILANO (PRENOTAZIONI 02.8323156) IN VIA GAUDENZIO FERRARI 11 DAL 26 AL 29 APRILE ALLE ORE 20,30. TUO, HIM.
In realtà non sono proprio sicuro di essere io in quella fotografia. Non riesco a ricordarmi dove fosse quella sala. Ich weiß nicht, was soll es bedeuten, daß ich so traurig bin. Io sono quel bambino sfuocato in bianco e nero. Qualche grafico in vena di scherzi mi ha disegnato i baffi, come alla Gioconda. Impudente. Lei non sa chi sono io! Peccato, me lo sarei fatto spiegare volentieri.

 

“La Canzone del Giardiniere” in “Sylvie e Bruno” di Lewis Carroll

Fèsta 2021
Sylvie e Bruno di Fanny&Alexander
17-20 dicembre 2021, Artificerie Almagià

 

Sylvie e Bruno è il terzo e ultimo romanzo di Lewis Carroll, il famoso autore delle due Alice, l’unico destinato ad un pubblico adulto. Il grande tema del romanzo è il sogno, l’invisibile, ciò che appare ma di fatto non esiste. C’è una straordinaria malinconica canzone che attraversa tutto il romanzo: la canta un Giardiniere folle, sempre in bilico su una gamba sola. Il Giardiniere è un personaggio chiave nel romanzo. Ogni volta che i due piccoli protagonisti della storia, Sylvie e Bruno, lo incontrano, il Giardiniere aggiunge una strofa alla sua canzone, che ha sempre lo stesso schema: ci illudiamo di vedere qualcosa, guardiamo meglio e ci accorgiamo di esserci sbagliati. La realtà è un oggetto inafferrabile. Alla fine del racconto Sylvie e Bruno incontrano per l’ultima volta il Giardiniere. Sta ancora cantando e i bambini si stupiscono: ma non finisce mai questa canzone? Il Giardiniere canterà l’ultima strofa piangendo. Quella canzone, intricata figura dello stesso romanzo, è anche la storia della sua vita. Qui sotto trovate il testo dell’intero componimento carrolliano e la versione musicale che ne ha fatto Emanuele Wiltsch Barberio per lo spettacolo di Fanny & Alexander. Buon ascolto!

 

La Canzone del Giardiniere

di Lewis Carroll
(traduzione di Chiara Lagani)

Pensò d’aver visto un Elefante
esercitarsi col suo flautino.
Guardò ancora e si accorse che invece
Era una lettera della moglie.
«Finalmente» disse «l’ho capita:
ecco l’amarezza della vita!»

Pensò d’avere visto un Bisonte
nel camino, tra la carbonella.
Guardò ancora e si accorse che invece
era la nipote del marito della sorella:
«Se tu non vai via,
chiamerò subito la Polizia!»

Pensava di aver visto un Serpente
interrogarlo, ma in greco antico.
Guardò di nuovo e si accorse che era
la Metà Settimana seguente.
«La cosa», disse, «che m’addolora
è non poter rispondere ancora!»

Pensava di aver visto un Banchiere
che saltava giù da una corriera.
Guardò di nuovo e si accorse che era
un Ippopotamo:
«Se resta a cena», disse,
«per noialtri basterà appena!»

Pensava d’aver visto un Canguro
armeggiare col macinacaffè.
Guardò ancora ma si accorse che era
solo una Pillola Vegetale:
«In caso mi toccasse ingoiarla,
finirei subito all’ospedale».

Pensò di vedere un tiro a quattro
che si fermava accanto al suo letto.
Guardò ancora ma si accorse che era…
…era un Orso, ma senza la testa.
«Oh povera», disse, «sciocca bestia!
Attende il suo rancio per far festa!»

Pensava di vedere un Albatros
volteggiare attorno ad un fanale.
Guardò ancora e si accorse che era
soltanto un francobollo postale.
«Faresti meglio ad andare», disse:
«Per te la notte umida è letale!»

Pensava di vedere un cancello
che si apriva col suo chiavistello.
Guardò ancora e si accorse che era,
ahimè, la Doppia Regola del Tre.
«Ecco che il mistero si rivela:
ora è chiaro come il giorno per me».

Pensava di vedere la Prova
del fatto che era lui adesso il Papa.
Guardò ancora, ma si accorse che era
una saponetta variegata.
«Tutto ciò mi fa paura», disse,
«ogni speranza è ormai tramontata!»

 

 ASCOLTA He thought he saw an elephant, di Emanuele Wiltsch Barberio:

 

Il suono dell’esilio

La Stagione dei Teatri 2021/2022
Cabaret Yiddish di e con Moni Ovadia
9-12 dicembre 2021, Teatro Alighieri

 

Presentazione di Cabaret Yiddish, di e con Moni Ovadia, secondo appuntamento de La Stagione dei Teatri 2021/2022, a cura di Alessandro Fogli.

Manifesto di Cabaret Yiddish, fotografia di Maurizio Buscarino

 

È tante cose, Moni Ovadia: attore, cantante, musicista, scrittore. Probabilmente però, più di ogni altra cosa, Ovadia è, come lui stesso a volte si definisce, «un militante per le cause della pace e della giustizia sociale, dei diritti degli uomini e dei popoli, della dignità». Pace, giustizia, dignità, diritti dei popoli, da dove arrivano tutte queste vocazioni? Forse dalle sue radici e dalla sua formazione.

Natali bulgari, si trasferisce ancora bambino a Milano con la famiglia, di ascendenza ebraica sefardita, ma di fatto impiantata da molti anni in ambiente di cultura yiddish e mitteleuropea. Questa circostanza influenzerà profondamente tutta la sua opera di uomo e di artista, dedito costantemente al recupero e alla rielaborazione del patrimonio artistico, letterario, religioso e musicale degli ebrei dell’Europa orientale, patrimonio che trova consacrazione imperitura in uno spettacolo in particolare di Moni Ovadia, quello che ha sancito il suo successo teatrale e che, non a caso, viene replicato da quasi trent’anni con immutato successo. Cabaret Yiddish nasce come “spettacolo da camera” nel 1992 (da esso verrà poi derivato il celeberrimo Oylem Goylem) e con questo lavoro Ovadia ha letteralmente diffuso in Italia la conoscenza della cultura yiddish e della musica klezmer.

«La musica klezmer ha due caratteristiche – spiega Ovadia – è una soul music, perché è la musica di un popolo, della sua anima; ed è una world music, perché pur avendo un’anima specifica non è solipsista, bensì composta da tante esperienze sonore e timbriche provenienti da tutto il grande bacino in cui vivevano le comunità ebraiche orientali». Come il titolo suggerisce, quello che andrà in scena al Teatro Alighieri per La Stagione dei Teatri 2021-22 è uno spettacolo in forma di cabaret, che alterna gustose “storielle” di vita e riflessioni satiriche sulla famiglia e la società ebraiche, sul razzismo, il rapporto col divino, con musiche, canti e danze eseguite dal vivo (dallo storico gruppo composto da Maurizio Dehò al violino, Paolo Rocca al clarinetto, Albert Florian Mihai alla fisarmonica e Luca Garlaschelli al contrabbasso). Uno spettacolo pulsante di vita, ipercinetico, divertente, profondo, in cui la lingua, la musica e la cultura yiddish – un inafferrabile miscuglio di tedesco, ebraico, polacco, russo, ucraino e romeno – fanno da contrafforte alla condizione universale dell’Ebreo Errante, che dai tempi di Mosè a oggi ha sempre vissuto la condizione dell’esilio, solo a volte riuscendo ad affermarsi, quasi sempre guardato con diffidenza, se non con ostilità. Uno spettacolo che «sa di steppe e di retrobotteghe, di strade e di sinagoghe» e che è ciò che Moni Ovadia chiama «il suono dell’esilio, la musica della dispersione», in una parola della diaspora. E se lo yiddish è la lingua di quella parte di cultura ebraica che racconta Ovadia, il klezmer – che deriva dalle parole ebraiche kley e zemer, ossia violino e clarinetto, con cui si suonava la musica tradizionale degli ebrei dell’est europeo a partire all’incirca dal XVI secolo – ne è la colonna sonora. «Ho scelto di dimenticare la “filologia” – dice Ovadia – per percorrere un’altra possibilità proclamando che questa musica trascende le sue coordinate spazio-temporali “scientificamente determinate”, per parlarci delle lontananze dell’uomo, della sua anima ferita, dei suoi sentimenti assoluti, dei suoi rapporti con il mondo naturale e sociale, del suo essere “santo”, della sua possibilità di ergersi di fronte all’universo, debole ma sublime. Gli umili che hanno creato tutto ciò prima di poter diventare uomini liberi, sono stati depredati della loro cultura e trasformati in consumatori inebetiti ma sono comunque riusciti a lasciarci una chance postuma, una musica che si genera laddove la distanza fra cielo e terra ha la consistenza di una sottile membrana imenea che vibrando, magari solo per il tempo di una canzonetta, suggerisce, anche se è andata male, che forse siamo stati messi qui per qualcos’altro». In Cabaret Yiddish Moni Ovadia conduce dunque lo spettatore all’interno di una comunità di cui spesso si conoscono solo i caratteri esteriori o le tragedie, andando a disvelare pregiudizi, negativi e positivi.

Cabaret Yiddish è anche il secondo spettacolo dell’anta de La Stagione dei Teatri denominata Malagola, che prende il nome dalla scuola di vocalità e centro studi sulla voce diretto da Ermanna Montanari. Il progetto raccoglie, a Ravenna, attività dal respiro internazionale tra loro intrecciate: la scuola, gli archivi d’arte e quelli audiovisivi della scena contemporanea, una collana editoriale dedicata, incontri, spettacoli e concerti che si articoleranno tra il Rasi, Alighieri e Palazzo Malagola. Moni Ovadia fa parte del corpo docente di Malagola e nei giorni dello spettacolo terrà una serie di lezioni di Pratiche di creazione sonora.

Il lato oscuro della Storia

FÈSTA 2021
OTTANTANOVE DI FROSINI/TIMPANO
martedì 7 dicembre 2021 ore 21.00, ARTIFICERIE ALMAGIà

In occasione di Ottantanove, per Fèsta (a cura di E Production e Ravenna Teatro), ripubblichiamo l’articolo di Elvira Frosini e Daniele Timpano, apparso sul numero 21 dello speciale di Domani «DopoDomani» del 12 Ottobre 2021.

Fotografia di Ilaria Scarpa

Le origini della democrazia e il colonialismo dentro di noi. Due facce di una questione aperta.

“ELVIRA – Lo vedi come sono ridotti? Hanno fatto un disastro a casa loro e poi vengono qua. Addio Africa!
DANIELE – Si, va bene, vengono qua a ubriacarsi, pisciano sui portoni, ma non è colpa loro. Questi africani egiziani arabi cinesi indiani pachistani senegalesi marocchini uzbeki, sono così, poveracci. Non è colpa loro.
ELVIRA – È che non sono intelligenti come noi, l’ha detto pure il barista sotto casa.
DANIELE – Sì, proprio non ce l’hanno nel dna, non ci arrivano.
ELVIRA – Hanno un problema con la modernità.
DANIELE – È vero.
ELVIRA – “I Negri d’Africa non hanno ricevuto dalla natura nessun sentimento che si elevi al di sopra della stupidità”
DANIELE – Sempre il barista sotto casa?
ELVIRA – No, Immanuel Kant. E poi sono ingovernabili, “Moriranno sempre di fame. Sempre. Sono destinati. Se qualcuno non li governa, non ce la faranno mai”.
DANIELE – Anche questo è Kant?
ELVIRA – No, è mia cugina Veronica. “Si ostinano a non entrare nella storia”. “Zoologicamente e non storicamente sono uomini. Si cerca di addomesticarli e addestrarli, ci si sforza di svegliarli ad uomini, è ciò che si chiama l’incivilimento dei barbari e l’umanamento dei selvaggi”.
DANIELE – Ma tua cugina è filosofa?
ELVIRA – No, questo l’ha detto Benedetto Croce. E poi sono corrotti, violenti, si ammazzano tra di loro, c’hanno i dittatori. Per loro la vita mica vale come per noi. Per loro la vita non vale niente. Sono abituati a morire.
DANIELE – Sempre Croce?
ELVIRA – No, mio papà. “Ai negri non viene neppure in mente di aspettarsi per sé quel rispetto che noi possiamo esigere dal prossimo”. Hegel.
DANIELE – Hegel?
ELVIRA – “Per natura elemento barbaro ed elemento servile sono la stessa cosa”.
DANIELE – Sempre Hegel?
ELVIRA – No, Aristotele. “Ma guardali Non hanno voglia di lavorare, come i napoletani, i calabresi, i siciliani, sono simili. Uguali”.
DANIELE – Dai, questo però è il mio papà…
ELVIRA – No, l’ha detto Rousseau. Insomma sono RAS.
DANIELE – Ras come i Rasta, i Ras abissini, Ras Tafari…?
ELVIRA – No R-A-S. È un acronimo. Ridotte Attitudini Sociali. RAS. Mio padre aveva un ragazzetto che lavorava per lui, un tuttofare che si arrangiava a fare tanti lavoretti. Scuro scuro di carnagione, del suo paese vicino Roma. Burinozzo. Beh lo chiamava il Ras.
DANIELE – È tutta colpa del colonialismo!
ELVIRA – E che è?
DANIELE – Boh.
[da Acqua di colonia, 2016]

Fotografia di Ilaria Scarpa

 

Siamo al bar, come tanti, a prendere l’aperitivo, e passano intanto quelli che ti vendono gli accendini, gli oggettini, afrodiscendenti, africani, asiatici, uomini e qualche volta donne. Tu non li vedi bene, cerchi di ignorarli, cerchi di non sentire il tuo fastidio, ti senti in trappola tra il tuo fastidio e il tuo senso di colpa. Sì, perché tu ti senti una vittima e nello stesso tempo parte di un mondo ingiusto, hai i tuoi problemi, grandi e piccoli, e non è che puoi farti carico di tutte le ingiustizie. E poi da sola che cosa puoi fare? Dietro tutto c’è un rimosso, sempre. Si rimuove tutto. Si rimuovono le domande: perché siamo così? Perché guardiamo e pensiamo il mondo così?

E intorno a te, dietro e davanti, in questi anni, ci sono le cose che accadono, il flusso di migranti in aumento, il mare diventato una tomba, la costruzione della paura di quelli che arrivano, la costruzione di onde emotive collettive che oscillano invariabilmente tra la paura e la commozione. E poi il Black Lives Matter, il discorso sul colonialismo e post-colonialismo e neocolonialismo, i tentativi di aprire discorsi sulla decolonizzazione dei corpi, della cultura. E poi l’Europa, che percepisci immobile e impaurita, i muri costruiti, i patti per arginare i flussi migratori. L’Europa – e l’Italia in cui sei nata – nella cui cultura “democratica” sei cresciuta, con le sue democrazie e i suoi principi. La vedi là, circondata di campi profughi, di detenzione, abusi e torture, che fa finta di niente, mentre continua a pensarsi come il baluardo dei diritti universali. E senti uno stridore ed uno svuotamento. La politica non ti parla, non pensa un mondo nuovo ma tende a mantenere questo come il migliore e l’unico possibile. La politica, che non ha più sogni ed orizzonti da proporre. La nostra epoca, nata con l’abbattimento di un muro (il muro di Berlino, 1989), costruisce di nuovo muri.

“A- L’Europa! Che meraviglia. Un modello per il mondo. Così credevo da bambina. Tutto nasce allora. Coi Lumi. Con la Rivoluzione. È come un’infanzia. È la che nasce il mondo, questo, in cui viviamo. È un po’ tutta un’infanzia e una giovinezza lontana, la nostra, che ci raccontano. Ce la raccontiamo. Che l’infanzia te la racconti con gli occhi di adesso, la avvolgi di una luce dorata, di tristezza, e malinconia, e di eroismo e di gloria. Ti ricordi quando hai preso l’autobus da solo per la prima volta per andare a scuola, o quella volta che hai salvato tuo fratello piccolo che era caduto in una fontana…
C – E allora andiamo a scavare in questa infanzia, in questa rivoluzione, in questa archeologia di democrazia, riportiamo alla luce qualche scavo. Qualche reperto. Qualche pezzo di muro. Sì. Pezzi di macerie, di muri crollati, o pezzi di muri in costruzione. Stiamo in piedi su macerie, come su piedistalli. Ecco, questo è un pezzo di muro della Bastiglia, 1789.
A – È un pezzo di Muro di Berlino, 1989.
B – Un pezzo di muro delle Tuileries, la Convenzione, distrutta durante la Comune di Parigi, 1871.
C  – Un pezzo di muro delle Torri Gemelle di New York, 2001.
B – Un pezzo di muro di una casa di Aleppo in Siria.
A – Un pezzo di muro del sito di Palmira.
C  – Un pezzo di muro degli Stati Uniti al confine con il Messico.
A – Un pezzo di muro di Ventimiglia, del Brennero, del confine dell’Ungheria, della Turchia, un pezzo di muro di casa mia, a Roma, che cade a pezzi. Un sampietrino de Roma, che ce lo siamo portati da Roma.
C –  Resti, reperti, ricordi che rigiriamo tra le mani, reliquie, reliquie sacre, come il sacro cuore di Marat, ecco, potremmo farci un funerale, sì, il funerale della nostra convivenza, della nostra democrazia
A,B,C – Un bellissimo funerale.”
[da Ottantanove, 2021]

Fotografia di Ilaria Scarpa

 

Torniamo quest’anno al Romaeuropa Festival con Ottantanove, un lavoro che si interroga sulla democrazia, sulla sua crisi, sulla possibilità di pensare oggi una rivoluzione, o un cambiamento. Cosa resta oggi nei nostri sistemi democratici delle aspirazioni di universalità che sono alle origini della modernità? Ottantanove si ricongiunge e continua così il discorso aperto con Acqua di colonia, presentato a Romaeuropa nel 2016, in cui era centrale il tentativo di ri-conoscere e guardare in faccia le origini coloniali e razziste della nostra cultura occidentale.
Il nostro lavoro procede sempre per domande. Domande che facciamo a noi stessi, domande implicite, questioni che rivolgiamo al pubblico, che condividiamo. E guardiamo spesso alla Storia, per far luce sul presente, sulle questioni irrisolte che viviamo oggi. Cominciamo sempre da una presa di distanza, dalla consapevolezza – o da un tentativo di consapevolezza – di dove siamo.
Da che punto – geografico, storico, culturale – stiamo parlando?
Si tratta anche – per noi – di un continuo tentativo di reagire alla semplificazione, accettando la complessità. Viviamo in un mondo non binario, non schematico, ma tutto, intorno a noi, sembra costringere – anche nei discorsi “antagonisti” – ad una lettura ottusamente conformista e identitaria, e perciò rassicurante, del presente.
Queste domande all’origine dei nostri lavori nascono dalla nostra vita, personale e collettiva.
Le domande che ci siamo posti in Acqua di colonia erano: “Siamo colonialisti? Lo siamo stati? Siamo razzisti? “. Le domande da cui ci siamo mossi per Ottantanove erano: “Cosa ne è stato della Rivoluzione? È qualcosa a cui possiamo ancora pensare? Cosa rimane oggi della Rivoluzione francese, mito fondativo della democrazia occidentale, dei diritti universali?”

 

Fotografia di Ilaria Scarpa

 

Ecco, queste questioni si rispecchiano e si rispondono da un lavoro all’altro. È stato un po’ come guardare o scavare dentro di noi, e dietro di noi, nelle due facce di una stessa questione, di un groviglio che fatichiamo a leggere.

Con Acqua di colonia abbiamo così guardato in faccia il colonialismo ed il razzismo costitutivo della nostra cultura, italiana ed occidentale. Abbiamo tentato una rivoluzione copernicana del nostro sguardo, del nostro modo di guardare il mondo. In Ottantanove parliamo dello svuotamento della democrazia, che viviamo oggi – tutte e tutti – sulla nostra pelle ed arriviamo al nodo di una contraddizione evidente e mai risolta: la pretesa di universalità e di dettare ritmi e modi della democrazia nel mondo e la sua continua negazione nei fatti, duecentotrenta anni fa come nel 2021.

Le nostre vite democratiche, i nostri corpi democratici, i nostri occhi, orecchie e pensieri democratici sono stati costruiti a partire da là. Dalla Rivoluzione. La Rivoluzione, figlia dell’Illuminismo, è alle origini delle nostre democrazie mature e stanche. La Rivoluzione ha a che fare con la nostra identità cosiddetta europea, assunta già da allora a modello assoluto di civiltà. Eh sì perché è nel ‘700, nel secolo dei lumi e della Rivoluzione, che si precisa e teorizza – e mette in pratica – l’idea che sia l’Europa (l’Occidente) a dettare tempi e modi al mondo: economicamente (con l’industrializzazione), socialmente (con la modernizzazione), politicamente (con la democratizzazione), culturalmente (con la secolarizzazione). Da allora a dominare il mondo siamo noi. Un “noi” che è forse un po’ più Stati Uniti, Francia, Germania che l’Italia ma che è pur sempre un “noi” e non un “loro”: la parte giusta della barricata contro la barbarie, dicono, contro un mondo diventato nel frattempo forse abbastanza forte da buttarci giù dal piedistallo.

 

Fotografia di Ilaria Scarpa

 

Il nostro mondo, l’Europa, piccolo mondo antico e asserragliato su sé stesso, è un’entità contraddittoria, in evidente crisi politica e democratica, che sottrae la politica ai suoi stati, in cui domina lo stato d’eccezione, il securitarismo, il condizionamento delle costituzioni nazionali con il pareggio di bilancio, ma che continua a proclamare come suoi fondamenti identitari i diritti civili, la partecipazione, la sovranità popolare, la separazione dei poteri, la cittadinanza, le libertà di stampa, riunione, culto, associazione, la democrazia. Idee che conosciamo, le riconosciamo, sono i nostri più alti valori, ci ripetono ogni giorno, ciò che farebbe l’Occidente ancora oggi superiore rispetto al mondo sinora (e tuttora) dominato. Concetti nati durante la Rivoluzione e in essa già traditi, ancora oggi sbandierati e utilizzati in qualunque discorso pubblico europeo, nonostante suonino ormai svuotati di senso, di sostanza, come gusci vuoti lasciati sulla spiaggia. Cose nate allora la cui carcassa ci ritroviamo oggi tra i piedi, ma svuotata di ogni contenuto, come le mummie imbalsamate degli egizi, con tutti gli organi chiusi in un vaso canopo – la milza, gli intestini, il cuore, il fegato – e la vuota forma del corpo glorioso che fu, tuttora affascinante e persistente come un deodorante, ormai definitivamente morta.
Che fine ha fatto, non diciamo la vita, ma almeno il canopo?

 

Fotografia di Ilaria Scarpa

 

Questo testo è il primo che abbiamo scritto per Ottantanove, contiene un’evocazione di immagini della Rivoluzione francese.

Ricordare. La cipria, le parrucche, i balli a corte, le candele, il clavicembalo, gli automi meccanici, Voltaire, Rousseau, Diderot, D’Alembert, Oscar François de Jarjayes, e le calze, le culottes, gli amori di Maria Antonietta col Conte di Fersen, lo scandalo della collana, il popolo ha fame dategli le brioche e poi Parigi, la Bastiglia, e primo, secondo e terzo stato (ma non il quarto), i berretti frigi e i sanculotti, le picche, le coccarde, le bandiere, le teste sulle picche, e cittadino, e cittadina, i giacobini, la Gironda, la Palude, la Montagna, l’Illuminismo, la Ragione, i discorsi per la strada, alla tribuna, dal balcone, e Robespierre, Danton, Saint-Just, la Convenzione, il Re ghigliottinato, Marat ucciso nella vasca, Jacques-Louis David, la Pallacorda, i diritti dell’uomo (ma non della donna, né dell’uomo o donna negri) e il Ça ira, la Carmagnole, la Marsigliese, il Direttorio, e poi l’abolizione della schiavitù, e il ripristino della schiavitù, la rivoluzione nelle Antille, e Haiti indipendente, prima repubblica nera nella storia, e poi brumaio, frimaio, termidoro, messidoro, fruttidoro, germinale, vendemmiaio e tutti i mesi del calendario rivoluzionario, e la Costituzione, la Dea Ragione, l’Essere supremo, le repubbliche sorelle, Foscolo in esilio, Napoleone, Campoformio, Vittorio Alfieri, Vincenzo Monti, la Repubblica di Napoli, la Repubblica Romana, la Repubblica Batava, Transpadana, Cispadana, Subalpina, Cisalpina, Cisrenana, Anconitana, la Repubblica Ligure, Elvetica, Astese, e gli alberi della libertà, il Papa arrestato e deportato e morto in Francia, e Lavoisier, i Montgolfier, Alessandro Volta, Fahrenheit, Linneo, e poi assemblea, democrazia, libertà, voto, popolo, Terrore, terrorismo, ghigliottina e teste mozze, teste mozze, teste mozze, teste mozze. “Liberté, Egalité, Sexualité”.

Lo abbiamo letto su una vetrina di Gucci a Parigi in centro.
[da Ottantanove, 2021]

 

Azzardo: se è legale non fa male? I dati dicono il contrario

Al Socjale

martedì 30 novembre 2021 ore 20.30 Slot Machine, di Marco Martinelli, con Alessandro Argnani e Christian Ravaglioli
mercoledì 1 dicembre 2021 ore 20.30 Partita aperta – Il modo più sicuro di ottenere nulla da qualcosa, Anime Specchianti

In occasione degli ultimi due spettacoli della rassegna Al Socjale, con due lavori incentrati sul tema del gioco d’azzardo, ripubblichiamo un recente articolo di approfondimento sul tema uscito su Vita a firma di Marco Dotti.

Azzardo: se è legale non fa male? I dati dicono il contrario
di Marco Dotti,  24 settembre 2021, Vita.it

 

Il Ministero dell’Economia e delle Finanza ha pubblicato i dati del consumo di azzardo nel 2020. La spesa per slot e macchinette è scesa del 47%. Al di là del lockdown, come ammettono i Monopoli di Stato, la riduzione della spesa degli italiani, con le conseguenti riduzioni di problematiche criminali e sociali, è maggiore dove vi sono leggi regionali e regolamenti comunali che limitano gli orari di apertura e impongono distanze dai luoghi sensibili. Recenti studi dimostrano che il nesso legalizzazione -riduzione del consumo ergo diminuzione del business in mano alle mafie è falso

 

L’azzardo è solo una merce. Una tra le tante. Ma quando diventa di massa, legale, somministrato direttamente o a mezzo terzisti con il “bollino” pubblico allora quella merce diventa del tutto particolare.
La sua innata tossicità viene celata, percepita come “naturale”, forse inevitabile. Il pesce, d’altronde, non si accorge di vivere in una boccia d’acqua finché il vetro si rompe e comincia a soffocare.

 

La legalizzazione: strumento per creare mercati manipolati

Accade così che la “naturalizzazione” di un fenomeno altamente distorsivo delle economie di mercato porti a un inevitabile rigged market, un mercato manipolato dove gli unici a vincere sono i big boys che, attraverso il loro comprimario statale, riescono sempre e comunque a socializzare le perdite (sanitarie, sociali, relazionali, commerciali, persino industriali). Privatizzando i profitti.

A ben vedere, tralasciando aspetti tossicologici e limitandoci alle scelte di politica pubblica e di economia civile, il nesso tra azzardo legale e ipotesi di legalizzazione delle sostanze stupefacenti di cui si sta dibattendo in questi giorni è tutto qui: creare un mercato, aprirlo a eventuali concorrenti privati, scaricando sulla collettività i costi di quel mercato. Recenti studi dimostrano che il nesso legalizzazione -riduzione del consumo ergo diminuzione del business in mano alle mafie è falso.

«Se è legale non fa male» era il claim di uno spot pro-azzardo dei Monopoli di Stato. Sono passati alcuni anni, ma il bias istituzionale e concettuale è sempre quello.

La spesa in azzardo degli italiani nel 2020
Fonte: ADM

Il resto – «se non legalizziamo lasciamo mano libera alla criminalità» – è retorica per anime belle. Non si tratta, infatti, di porre il dilemma fallace tra “proibizionismo” e “antiproibizionismo”. Si tratta di comprendere, fuori e lontano da ogni ingenuità, di che cosa parliamo quando parliamo di rigged markets, mercati manipolati. E di che cosa parliamo, dunque, quando parliamo di mercati manipolati? Parliamo di offerte che inducono e creano la loro domanda, ampliando la platea di consumatori con prodotti ad alto potenziale di addiction.

Dal lato industriale, parliamo sostanzialmente di oligopoli: pochi, grossi gruppi per lo più finanziari che operano in concessione, ma sono in grado di dettare al concessionario (lo Stato) le loro regole. Tutto qua.

 

I dati 2020 del rigged market dell’azzardo legale italiano

Vediamo allora i dati del mercato legale dell’azzardo in Italia relativi al 2020, ricordando che dietro questi dati ci sono vite sconvolte, relazioni segnate da debiti, malattia, usura. Milioni di persone: quante non sappiamo, l’Italia al netto di farsesche ricerche di sentiment non ha mai realizzato una seria indagine epidemiologica sul fenomeno, restando indietro rispetto agli altri Stati europei.

Quanto incassa l’Erario dalla spesa in azzardo
Fonte: ADM

Resi pubblici la settimana scorsa dall’Agenzia Dogane e Monopoli (ADM), l’ente di scopo del Ministero dell’Economia che presiede al controllo del settore, i dati sul consumo di azzardo segnano una parziale discesa dopo anni di incremento costante: – 33% complessivo sul consumo/spesa (che l’ADM è tornata a chiamare “raccolta”) in azzardo.

In particolare, per le “macchinette (slot machine da bar e da sala giochi), il decremento nella spesa è stato del 47,20%. La spesa complessiva degli italiani è stata di 88,38 miliardi di euro (venti in meno rispetto al pre-Covid). Lo Stato, in tutto questo, incassa 7,2 miliardi.

 

Le leggi regionali no slot funzionano, lo ammette lo Stato!

Va detto, come si legge nel report dell’ADM, il cosiddetto “Libro Blu” (che alleghiamo in calce all’articolo), che la riduzione del 47,20% rispetto al 2019, non corrisponde a un calo del gettito proporzionale, visto che «il gettito erariale derivante dal gioco fisico è diminuito del 39,05% fra il 2019 e il 2020, a testimonianza da un lato di una fiscalità che incide di più sul gioco fisico piuttosto che su quello on-line e, dall’altro, dell’aumento generale della pressione fiscale sul settore».

A livello regionale, inoltre, i dati dimostrano che, al di là dell’emergenza Covid e del lockdown, già dal 2019 si era registrata una flessione del dato relativo alla spesa in azzardo in alcune Regioni (su tutte Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige, Calabria, Emilia-Romagna, Marche e Lazio). Riduzione dovuta, da un lato, alla presenza di leggi regionali e regolamenti comunali più restrittivi e a tutela della salute (anziché del business) e – ammettono onestamente dall’Agenzia – «all’entrata in vigore delle regolamentazioni comunali in materia di orari di apertura dei punti gioco», dall’altro dalla conseguente riduzione del numero di macchinette presenti sul territorio.

Gli stessi regolamenti e le stesse leggi che, oggi, sono sottoposte a un duro attacco. Perché in un rigged market la legalità fa comodo, solo a patto che il controllato detti le regole al controllore.

 

PS. Una piccola nota. A margine della presentazione del Libro Blu, alla presenza dei Ministri Luigi Di Maio, Roberto Speranza e Giuseppe Guerini e del moderatore Fabio Fazio, si è ricordata l’iniziativa “Disegniamo la fortuna”: l’iniziativa pensata per «coinvolgere il Terzo Settore» che già avevamo segnalato nella sua ambiguità. Si tratta di una call «per disegnare il biglietto della lotteria italia 2021». Una call rivolta ad «artisti disabili».

La commissione artistica chiamata a giudicare tra i 150 bozzetti arrivati, presieduta da Gianni Letta, è composta da Renzo Arbore, Claudio Baglioni, Stefano Boeri, Milly Carlucci, Cristiana Collu, Pierfrancesco Favino, Gianluca Lioni e Patrizia Sandretto Re Rebaudengo pare abbia scelto il bozzetto vincente. A perdere, però, sarà ancora una volta la povera gente.

Riemergendo dal fondo della scrittura e della scena

La Stagione dei Teatri 2021/2022
Madre di Ermanna Montanari, Stefano Ricci e Daniele Roccato
25-28 novembre 2021, Teatro Alighieri

In occasione di Madre di Ermanna Montanari, Stefano Ricci e Daniele Roccato, in apertura de La Stagione dei Teatri 2021/2022, riportiamo qui di seguito l’articolo “Riemergendo dal fondo della scrittura e della scena. Madre di Ermanna Montanari, Stefano Ricci e Daniele Roccato.” di Marco Sciotto, pubblicato in Arabeschi n. 17, gennaio-giugno 2021.

Riemergendo dal fondo della scrittura e della scena. Madre di Ermanna Montanari, Stefano Ricci e Daniele Roccato

Nato dalla volontà di Ermanna Montanari (Teatro delle Albe), del disegnatore Stefano Ricci e del contrabbassista Daniele Roccato di lavorare a un progetto comune, Madre ha debuttato nell’ottobre 2020 al festival Primavera dei Teatri di Castrovillari. Al centro del poemetto scenico scritto da Marco Martinelli, un dittico per due voci che non si incontrano, che consumano nel soliloquio l’impossibilità di un dialogo: una madre precipitata dentro a un pozzo profondo e un figlio che non riesce o non vuole salvarla. Un cadere, un precipitare che ha come messo in crisi l’idea stessa di creazione e di generazione che la madre incarna. La scena diviene allora il luogo nel quale poter ripensare dal suo grado zero la modalità stessa di approcciarsi al mondo e al reale attraverso la capacità di mettersi in ascolto e in vera relazione con esso. Un ribaltamento di paradigma, come direbbe Roberto Barbanti: da quello distaccato e monodimensionale del retinico e dell’immaginario, a quello relazionale e polifonico dell’acustinario. Madre sembra essere, allora, proprio il campo d’azione di una simile sfida, nella quale tutti siamo chiamati a sostituire quel figlio incapace di sentire e a metterci in ascolto del mondo e della sua invocazione d’aiuto, prima che sia troppo tardi.

1. «Scrivere è una pietra gettata in un pozzo profondo»: quel che viene prima

Nell’ottobre del 1995, a una manciata di settimane dalla sua morte, Heiner Müller riversa in parole le immagini di un proprio allucinato sogno notturno, dando vita al breve scritto che andrà sotto il titolo di Traumtexte. Nel sogno – e nel testo – Müller cammina faticosamente sullo stretto bordo di una gigantesca cisterna: da un lato la conca d’acqua in cui rischia di precipitare, dall’altro un’alta e impraticabile parete di cemento che lo separa dalla superficie e dal resto dell’umanità. Sulle spalle, dentro a una cesta di bambù, la sua bambina di due anni, motivo d’ulteriore intralcio e apprensione, così come la nebbia che nasconde alla vista ciò che si trova lassù, nel mondo lasciato in cima, oltre la parete. Una nebbia che, diradandosi e mostrandogli quella vita ormai negata e che seguita a scorrere senza di lui, aggraverà il suo smarrimento, la sua sensazione di definitivo abbandono e perdita. Di lì a poco, la caduta nell’acqua senza fondo dalla quale non riuscirà più a riemergere, un’angoscia che si acuirà al pensiero che la bambina possa venir fuori dalla cesta rimasta sul bordo della conca e tentare di raggiungerlo.

Ed è questo Traumtexte di Müller ad aver riunito il disegnatore Stefano Ricci, il contrabbassista Daniele Roccato e il Teatro delle Albe – nello specifico Marco Martinelli ed Ermanna Montanari – nel progetto comune di portarlo sulla scena. O, meglio, di renderlo scena possibile per luoghi non convenzionali, al di là da quelli specificamente teatrali. Scena per musei e spazi espositivi, soprattutto, in grado di conciliare la rigorosa ricerca vocale di Montanari, quella sulle possibilità sonore del contrabbasso di Roccato e la sperimentazione di Ricci sul disegno e le potenzialità dell’immagine in scena con l’esigenza di scomporsi e assottigliarsi al punto da poter raggiungere gli spettatori altrove – piuttosto che farsi raggiungere da essi solo in teatro. Proprio come un sogno che, nella sua urgenza, piombi addosso quando e dove meno lo si aspetta.

A interrompere, tuttavia, l’elaborazione del progetto – meglio, a non permetterne neppure un vero e proprio avvio – lo scoppio dell’emergenza sanitaria e i conseguenti due mesi di confinamento a cavallo tra l’inverno e la primavera del 2020. Mesi nei quali l’abbandono dell’idea iniziale non frena il desiderio di tenere in vita e in attività, seppure a distanza, quel gruppo di lavoro su un progetto differente ma che mantenga le medesime premesse e aspirazioni.

È così che, abbandonato il Traumtexte di Müller, Marco Martinelli dà vita, in pochi giorni, al testo di Madre. Drammaturgia in versi liberi, poemetto scenico a due voci, dittico vertiginoso per due figure che, più che ingaggiare un dialogo, sembrano muoversi su due soliloqui che sanciscono un colloquio impossibile. Da un lato, un figlio che, in affanno e attraversando di corsa i campi, arriva al bordo di un pozzo nel quale pare sia caduta sua madre; dall’altro la madre, appunto, finita laggiù in fondo al pozzo dal quale non riesce più a venir fuori. Il primo rinchiuso ben presto nella ricerca di pretesti e alibi per differire una reale assunzione di responsabilità e ogni intervento di soccorso in prima persona; la seconda isolata nella sua condizione apparentemente irrimediabile, a interrogarsi sulle reali cause di essa, a rammaricarsi per la connaturata noncuranza del figlio che sconfina nella colpevolezza, a raccontare misteriose leggende a lui che sembra precipitato a sua volta nell’assenza e, infine, a implorarlo invano di scendere a salvarla senza ulteriori pretesti o esitazioni. Una mancanza di relazione effettiva tra le due voci che permette tuttavia, a esse e alle figure da cui scaturiscono, di moltiplicare le loro stesse possibilità di senso e di direzione, senza restare imbrigliate nell’univocità data da un reale contatto e dalla trama che ne scaturirebbe. Proprio come l’assenza di dettagli specifici o dei nomi delle due figure, che appaiono solo come ‘figlio’ e ‘madre’.

Un testo che sembra quasi il sogno del sogno di Müller. Così come i volti, i ruoli, i luoghi e gli eventi della vita vissuta vengono nei sogni confusi e ribaltati, allo stesso modo sembra che Traumtexte abbia a sua volta attraversato uno stravolgimento onirico che ha generato Madre. Stravolgimento nel quale la cisterna si deforma e si dilata nelle profondità di un pozzo, il rapporto tra padre e figlia si torce in quello tra una madre e un figlio e nel quale, soprattutto, s’è già realizzata e conclusa la scissione, la separazione che tanto angosciava l’uomo di Traumtexte: quella ferita della perdita, dell’abbandono e dell’assenza forse irreversibile, il cui timore segnava ogni suo passo sul bordo della cisterna.

Se, come scriveva Clarice Lispector, «scrivere è una pietra gettata in un pozzo profondo»,[1] Martinelli sembra aver gettato Müller nel pozzo profondo della propria scrittura, generando uno smottamento di piani, uno slittamento dal sogno al trauma, potremmo dire. Due termini – ‘trauma’ e ‘sogno’ – che la lingua tedesca lega, d’altronde, in un’etimologia comune[2] che, provenendo dall’idea del perforare e insieme del ‘passare al di là’, pare chiamare in causa, in un certo senso, anche il pozzo stesso, nel suo essere un passaggio a un altrove attraverso un abissale perforamento. Come Martinelli fa dire al figlio in questa sua ultima opera:

«Che un pozzo come questo
non è mica un pozzo normale
cosa credi?
Non ce n’è uno così sfondo
in tutta la pianura!
Dicono che arriva così giù
ma così giù
chilometri e chilometri
che a un certo punto dall’altra parte
si vedono le montagne!»[3]

Una parentela, quella del trauma di Madre con il sogno di Traumtexte, che si mostra già, ancor prima che sulla scena, sul manifesto realizzato da Stefano Ricci per lo spettacolo che, dopo un lavoro di ricerca condotto dapprima a distanza e poi in residenza al Teatro Rasi di Ravenna, ha debuttato, nell’ottobre 2020, nell’ambito del festival Primavera dei Teatri di Castrovillari. Premessa visiva, questo manifesto, che, come un ponte tra il testo di Martinelli e l’opera che ne è scaturita, accompagna gli spettatori fin dentro quel pozzo senza fondo in cui ‘madre’ e ‘dream’ perdono i confini che li separano, al punto da poter essere una cosa sola. Un buco nero in cui tutto sprofonda e tutto emerge e nel quale sembrano fondersi insieme l’abbandono del mondo intero e dell’affetto più intimo, della Madre come della madre, l’infanzia del mondo e la sua apocalisse, nell’indecidibilità di un enigma pronto a moltiplicarsi all’infinito sulla scena.

Locandina realizzata da Stefano Ricci per il debutto di Madre

 

2. Tornare alla creazione dopo l’abisso: Madre sulla scena, tra sguardo e ascolto

Lo spazio della scena è accessibile allo sguardo dello spettatore già al suo ingresso ma, illuminato solo di riflesso dalle luci di sala, è come disattivato, disinnescato. In quella penombra, tuttavia, si intravede già come spazio sezionato e ripartito in una moltiplicazione di elementi circolari di dimensioni, fatture e disposizioni differenti. Come avesse fatto posto al disseminarsi di tanti possibili pozzi diversi o dell’idea stessa di pozzo osservata, come in una sorta di proiezione ortogonale, da più punti di vista, su differenti piani. Un’invasione della scena attraverso la quale il pozzo stesso si sottrae a un ruolo meramente scenografico e, scomponendosi e ridistribuendosi, si configura già, piuttosto, come funzione che condizionerà l’intera opera.

Come presi nella forza d’attrazione di questa moltiplicazione di pozzi, le tre figure fanno il loro ingresso una dopo l’altra, trovando ognuna la porzione di scena che sarà la propria per l’intera performance. A ciascuna il proprio differente pozzo, legato al ruolo che deterrà all’interno dell’opera. Così come la pedana rotonda nella sezione sinistra della scena, sulla quale, a leggio, prende posto Ermanna Montanari e che sosterrà l’avvento e il prodursi della parola; o come il grande disco che, in verticale, riempie il centro dello spazio, sotto cui si colloca Stefano Ricci e sulla cui superficie prenderanno vita le proiezioni dei suoi disegni; ancora, come la struttura circolare sulla destra del palco, al centro della quale, come in un ideale golfo mistico, si dispone Daniele Roccato e sulla quale sono installati i monitor e la strumentazione elettronica che farà tutt’uno con il suo contrabbasso.

Differenti configurazioni di pozzi cui corrispondono, al contempo, differenti disposizioni del corpo umano, punti di vista diversi sul corpo scenico dipendenti dalle rispettive posture delle tre figure: Montanari in piedi, in ginocchio Ricci e seduto Roccato. Quasi fossero un unico corpo colto, come in una sequenza fotografica di Muybridge, in tre istanti consecutivi del suo cader giù verso l’abisso del pozzo stesso. Ed è questo precipitare cristallizzato ad attivare finalmente la scena, avvio sancito dal sopraggiungere del buio, quell’oscurità nella quale sembriamo condividere la sorte di questa madre finita nelle profondità più remote e dalla quale riemergere. Una madre che pare incarnare l’idea stessa della creazione, del dare la vita, e la cui sparizione ci getta da subito in un avvio nel segno della generazione o, meglio, della sua messa in discussione, del suo radicale ripensamento. Come se la necessità fosse quella di ripartire, attraverso la scena, dal grado zero della generazione stessa. La parola, il suono, il visibile, tutto il reale che essi incarnano, sembrano da ripensare e rifondare come non fossero mai esistiti. E la scena pare essere il luogo di una loro nuova possibile genesi.

Scriveva Max Kommerell che il gesto racchiude l’indicibile della parola.[4] E così in principio, in questo nuovo principio, non è più il verbo ma, appunto, la sua impossibilità che si converte in gesto. A solcare il buio è infatti il gesto di Stefano Ricci, la sua mano che traccia lenta una linea di gesso bianco sul nero del disco di cartoncino sistemato davanti a lui, sulle assi del palcoscenico. Linea bianca che, ingigantita e proiettata sull’altro disco sospeso in verticale sopra la sua testa, sarà la fenditura originaria da cui poco a poco si genererà il mondo stratificato della scena teatrale. Gesto sonoro, innanzitutto: l’attrito del gesso sul cartoncino è il primo suono percepibile nell’invisibilità di questo universo in formazione. Un suono quasi inavvertibile che si fa subito immagine, la quale, a sua volta, solleciterà il generarsi degli altri suoni che invaderanno progressivamente la scena. A partire da quelli del contrabbasso di Roccato, nella loro nudità e insieme nel loro plasmarsi attraverso i dispositivi elettronici che li rielaborano, in accordo con la preziosa e sapiente regia del suono di Marco Olivieri.

Mentre i gesti di Ricci si fanno via via più concitati e delineano forme sempre più riconoscibili, i suoni di Roccato crescono, facendosi consistenti e impetuosi. Il generarsi dell’immagine dal gesto originario e sonoro ha permesso lo scaturire dei suoni che, a loro volta, creeranno la parola. Una lingua che adesso, quasi impercettibilmente, sentiamo formarsi gradualmente all’ascolto.

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Fotografia di Enrico Fedrigoli

La voce di Ermanna Montanari pare faticare a levarsi, come nascesse per la prima volta e con essa il linguaggio stesso. Come scrive Agamben, commentando proprio Kommerell, «il gesto è sempre gesto di non raccapezzarsi nella parola»,[5] ed è questo arrancare della voce incapace ancora di dire, questo suo farsi gesto che la fa sbuffare, gorgogliare, che la stira e la raschia, che udiamo inizialmente. Una lunga introduzione nella quale ogni forma – quella visiva, quella sonora e quella linguistica – combatte e ribolle per emergere e affermarsi, in conseguenza del trauma della caduta che ha azzerato la creazione stessa. Ed è il figlio, ossia l’idea stessa di ciò che è creato, a costituirsi pian piano attraverso la scena: la madre è perduta in fondo al pozzo e sta allora alla scena, ai suoi tre creatori-performer, dare a lui una nuova nascita. Ricci ne immagina in modo sempre più dettagliato il profilo in corsa attraverso i campi, Roccato ne inventa il tessuto sonoro in cui è immerso nella sua corsa e Montanari ne scopre la voce che in quella corsa impreca, geme, protesta, si lagna.

È solo a seguito di questo riconfigurarsi del reale attraverso un suo inabissamento nel pozzo più profondo e di una nuova, differente nascita, che sembra si possa tornare ad accostarsi al mondo, modificando sguardo e prospettiva. Soltanto dopo questo sforzo penoso e sfiancante, sembra dirci Madre già nel suo incipit, si può prendere parola e ricominciare a vedere e ascoltare come fosse la prima volta. Ed è proprio ‘madre’ la prima parola riconoscibile che sentiamo soffiare tra le labbra di Montanari. La parola che racchiude in sé l’opera e questa nuova dimensione della nascita attraverso la scena. Un sibilo che è insieme il grido che apre il poemetto di Martinelli.

Lungo tutta la prima sezione del dittico, Ermanna Montanari inventa questo figlio in voce. Una voce che non tenta di rappresentarlo come personaggio, ma che intercetta e gli offre le sonorità necessarie all’articolazione dei versi di Martinelli, che sono qui un groviglio di timore, smarrimento, stoltezza e ansia di deresponsabilizzarsi. Così, nelle pieghe di timbri che ne fanno risuonare tutta l’ottusità e la grettezza, lo ascoltiamo innanzitutto rimproverare la madre per quell’incidente, per non essere rimasta a casa a guardare la TV come avrebbe dovuto fare alla sua età, per essersi affacciata e sporta troppo di là dal bordo. «Madre! / Cosa ci sarà mai da vedere / laggiù in fondo?»,[6] domanda, ma, attraverso le sue stesse parole, apprendiamo la risposta di lei, che sembra chiarire fin da subito come il pozzo non sia riconducibile tanto alla possibilità del vedere, allo sguardo, che infatti è abolito per tramite dell’oscurità che lo riempie, quanto a una dimensione legata all’udito, al solo ascolto: «Cosa? / Non ti sento / parla più forte! / Non ti sento / cosa stai dicendo? / Che era buio? / Cosa c’entra che era buio? / Hai sentito delle voci?».[7] Risposta subito derisa dal figlio stesso che, appunto, alla sfera dell’ascolto pare del tutto estraneo, come emerge anche dalla sua reiterata ammissione di non riuscire a sentire la voce della madre da quel fondo.

Accecare il creato per ripensarlo e rigenerarlo significherebbe, insomma, riaccostarsi a esso in attento ascolto e non in semplice osservazione distaccata. È per questo che tutto Madre non si mette in scena, ma in voce e suono. La rappresentazione, la sua osservabilità attraverso la distanza tra il palco e la sala, è abolita e riconvertita nell’intimità senza mediazione della sua udibilità, del suono che si genera già nella prossimità – che l’amplificazione favorisce – tra fonte e orecchio.

Fotografia di Enrico Fedrigoli

Questo contrasto apparentemente insanabile tra la vista e l’udito, tra sguardo e ascolto, tra i limiti del primo e le possibilità del secondo, sembra davvero rappresentare l’essenza centrale di Madre e custodirne i tanti enigmi, nella loro insolubilità. A partire dalla figura stessa di Ermanna Montanari e dalla sua presenza in scena che esige, qui, una ritrattazione di ciò che vediamo – ossia le sue fattezze femminili – per accordare fiducia a ciò che udiamo, al suo divenire, in voce, la figura maschile del figlio. Ma l’enigma, appunto, non si esaurisce qui. È solo un’attrice che interpreta un ragazzo, quella che vediamo e udiamo? O, piuttosto, è già la madre nel suo definitivo abbandono in fondo al pozzo, che si finge la speranza della presenza d’un figlio che possa salvarla? È davvero una sequenza di ruoli differenti a comporre il dittico di Martinelli o è piuttosto un’unica figura attraversata da alterazioni e mutazioni che concretizzano questo disperato intreccio di generazione, abbandono e distruzione? E, ancora, cosa vediamo attraverso l’ininterrotto fluire delle immagini in costruzione di Stefano Ricci e cosa ascoltiamo nei suoni di Daniele Roccato, nel loro nascere dal silenzio e risprofondare in esso non appena si sono generati?

Questioni che, in quanto enigmi, appunto, non ammettono risposte univoche o definitive soluzioni, ma che proprio nella loro inestricabilità e multiformità compongono l’opera e la sua tensione irrisolta tra creazione e creato, tra chi genera e chi distrugge ciò che l’ha generato. Tensione che si riverbera, appunto, in quella tra visibile e udibile, tra sguardo e ascolto. Tra ‘immaginario’ e ‘acustinario’, potremmo dire, ricorrendo a una distinzione fondamentale proposta da Roberto Barbanti in un volume di recente pubblicazione,[8] che con Madre sembra trovare sorprendenti punti di contatto e congiunzione. Se, scrive Barbanti, «l’immaginario occidentale, ormai in un certo qual modo propagatosi a livello planetario, si è costruito in un processo […] nel quale le diverse modalità del relazionarsi alla realtà […] sono state progressivamente plasmate dall’universo visivo, strutturandosi attorno ad esso»,[9] si pone in modo sempre più stringente la necessità di «attivare e favorire un processo di rinnovamento dell’immaginario che integrando e superando questa dinamica retinica monodimensionale possa “ri-conoscersi” nel mondo differentemente».[10] Un processo che ricorra dunque a una polisensorialità o, meglio, polifonicità. Un ribaltamento di paradigma dall’osservazione distaccata e riduttiva dell’‘immaginario’ a una sua ‘decolonizzazione’ attraverso l’immersione relazionale e irriducibilmente complessa dell’‘acustinario’, seguendo il termine coniato da Barbanti stesso già negli anni Ottanta.

E nell’Occidente che «ha fondamentalmente osservato il mondo distaccandosene progressivamente»[11] descritto da Barbanti, pare proprio di ritrovare quel figlio che, relegato a una dimensione fondamentalmente retinica, visiva, cerca invano di scorgere la madre nel buio del pozzo, incapace di sentirla e di porsi in suo ascolto. Quel figlio che, sordo a ogni empatia e capacità di assumersi le proprie responsabilità, finge di cercare una soluzione per tirarla fuori da laggiù, salvo poi trovare una scusa buona per non voler coinvolgere chiunque gli venga in mente – i polacchi, gli albanesi, le donne nei campi.

Una deresponsabilizzazione che sfocia, poi, in un lungo, pretestuoso elenco di strumenti, congegni e dispositivi tecnici all’avanguardia che dovrebbero costituire la task force che gli permetterebbe di salvarla da solo, senza ricorrere all’ausilio di nessuno. Ulteriore presa di distanza che delega alla sola tecnosfera un ormai impossibile rapporto diretto con la biosfera e che si farà finalmente definitiva grazie alla minaccia di un imminente, violento temporale che offrirà al figlio l’alibi per fuggire via, pur promettendo di ritornare una volta trovato aiuto.

Fotografia di Enrico Fedrigoli

Un pozzo che ruota su se stesso facendosi forse portale tra mondi differenti, passaggio tra identità inconciliabili: precipitandovi dentro, Montanari dissiperà definitivamente la figura del figlio, per riemergerne poi attraverso quella della madre, alla quale è affidato il resto dello spettacolo. Una madre che avanza lenta, quasi in trance a prendere il proprio posto sulla sua pedana-pozzo. Una figura incorniciata da una lunga parrucca bianca che pare rinnovare e moltiplicare gli enigmi della vista: è il figlio con in dosso una parrucca che sprofonda nell’illusione di una possibile sopravvivenza di ciò che non è sopravvissuto? È allora forse solo il figlio l’unica presenza a fingersi tutte le altre?

Fotografia di Enrico Fedrigoli

Anche qui, una risposta è impossibile e questo infittirsi della dimensione enigmatica di Madre ci inabissa nel flusso di versi affidati alla voce di lei e alla sua dimensione sempre più rarefatta. Quasi dovessimo – noi tutti prendendo il posto del figlio che non ne è stato in grado – affinare l’udito, raggiungerla nei suoi sussurri, nei suoi microscopici o evidenti cambi di tono o di timbro, in un regime della voce che pare davvero sorgere già nella ricezione più profonda e recondita dell’udito, farsi orecchio ancor prima che bocca.

La madre è tutta ascolto. È la dimensione acustinaria infinitamente stratificata del mondo che sfida quella ristretta e circoscritta dell’immaginario, tornando a Barbanti. Lo percepiamo innanzitutto nel suo ossessivo domandare al figlio, che è già andato via, se la sente, se riesce a udirla. Una richiesta reiterata nella totale assenza di speranza, formulata com’è senza il minimo sollevarsi di volume, quasi rivolta a se stessa e alla propria consapevolezza dell’impossibilità d’una risposta. Così come senza risposta è lo scorrere delle ipotesi da lei formulate sulle possibili cause della sua caduta, arrivando a supporre che possa essere stato addirittura il figlio stesso a spingerla, magari per la distrazione e la fretta che lo contraddistinguono: quel suo veder solo se stesso che gli impedisce di ascoltare tanto gli altri quanto le cose che gli stanno intorno. Come le calle che lei tanto ama e che lui finisce, noncurante, per calpestare ogni volta che entra nel suo orto, o come gli alberi e le piante d’ogni genere e famiglia che estirpa e abbatte senza riconoscerne il valore e l’inestimabilità e senza comprendere la gravità di simili azioni.

Le ipotesi e le recriminazioni lasciano improvvisamente il posto, però, nelle parole della madre, a un misterioso, enigmatico racconto. Una sorta di fiaba, di leggenda che richiama il Borges di Animali degli specchi[12] e che narra di un tempo in cui ogni specchio era una sorta di passaggio tra un mondo e un altro. Mondi che si scontrarono in una guerra della quale si sarebbero perse origine e ragioni e che si concluse con la prigionia degli individui di là dagli specchi e con la condanna, per loro, a ripetere per sempre, come schiavi, azioni e forme del mondo di qua. Una fiaba raccontata a nessuno, a un’assenza, a un figlio che non c’è più, un farsi suono senza destinatario. Suono che svela qualcosa su questo attraversamento di identità per tramite del pozzo-portale alle spalle di Montanari. Quello specchio che sfida dunque la dimensione meramente mimetica e rappresentazionale – speculare appunto – del teatro, per recuperarne una originaria, nella quale la scena torni a essere un campo nel quale ciò che è lì evocato possa combattere ancora la propria battaglia contro il reale e l’ordine delle cose e non limitarsi a imitarlo assoggettandosi a esso.

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Fotografia di Enrico Fedrigoli

E questo momento di Madre, tanto ermetico quanto essenziale nell’intero schema dell’opera, è anche l’unico nel quale Stefano Ricci sospende la propria incessante attività, smette temporaneamente di disegnare per fissare Montanari, rimanendo lì in ginocchio proprio come un bambino, un figlio, che abbandoni i propri giochi per ascoltare una verità, una rivelazione vitale. Perché è uno svelamento, questo, che chiama in causa un equivalente doppio regime possibile dell’immagine, una sua dimensione differente, anch’essa originaria e seminale, svincolata dalla mera rappresentazione. Uno svelamento che evoca la natura stessa dello scontro tra immaginario e acustinario, condotto qui in seno all’immagine stessa.

«VEDERE SIGNIFICA UCCIDERE LE IMMAGINI»,[13] scriveva Heiner Müller in uno dei commenti innestati lungo la drammaturgia del suo Anatomia Tito Fall of Rome. L’occhio rappresenterebbe infatti l’organo imperialistico dell’autorità, spiegherà più giù.[14] E proprio questo strapotere dello sguardo, rimarcato tanto da Müller quanto da Barbanti, pare essere messo radicalmente in crisi, sulla scena di Madre, anche e soprattutto dall’intervento di Ricci. Malgrado alla sua arte sia affidata la dimensione visuale dell’opera, che riempie gran parte dello spazio scenico, il suo procedere sembra muoversi proprio nella direzione di una decostruzione del potere dell’occhio, nel regno stesso dell’immagine. I suoi disegni – che si susseguono ininterrottamente –, piuttosto che ricondurre, addomesticandola, la dimensione uditiva dell’opera a quella visiva, paiono operare all’opposto: contaminando l’immagine e la sua aspirazione alla stabilità della forma con la natura stratificata e multiforme del suono impossibile da fissare in una fisionomia finita e invariabile.

Ciò che di questi disegni vediamo, infatti, è solo il loro farsi, il loro prodursi alla vista, un processo di generazione che si ripete senza sosta, non appena un’immagine, che apparirebbe compiuta, viene gettata da Ricci nel pozzo nero dal quale era sorta, senza che si abbia il tempo di osservarla e dominarla con lo sguardo. Esattamente come avviene per le parole e per i suoni, il cui nascere e svanire coincidono in un fluire incessante.

Fotografia di Enrico Fedrigoli

Forme soltanto nascenti e mai costituite davvero, in un bianco su nero che pare richiamare i negativi fotografici, il loro essere la promessa di un’immagine ancora di là da venire. Ricci uccide l’immagine prima che possa farlo l’occhio appropriandosi di essa e, in questo modo, mina il paradigma retinico in modo ancor più radicale, facendolo nell’ambito che gli è proprio. Pare volerci far vedere, per l’intera opera, proprio quest’impossibilità di vedere; voler ribadire sempre e soltanto l’illusorietà di ogni inalterabile acquisizione dell’occhio e dello sguardo, dentro e fuori l’opera. D’altronde, è importante sottolineare, contro ogni riduzione semplicistica, che in Barbanti stesso l’opporsi dell’acustinario all’immaginario non equivale ad «affermare una priorità dell’orecchio sull’occhio», bensì, in un «modello […] inclusivo e non selettivo […] indurre fattualmente la trasformazione del modello dominante».[15] Una trasformazione, quella dell’assetto visivo di Madre attraverso il suo corrispettivo sonoro, che permette una funzione antillustrativa dell’immagine, che appare ancor più evidente nei passaggi in cui essa non nasce a partire dalle parole di Ermanna Montanari ma, al contrario, le anticipa, le previene. Momenti nei quali sembra generarsi una sorta di cortocircuito, uno sfasamento in cui il visivo si svela come già pervaso della multisensorialità del sonoro, come sua parte integrante, come una delle sue possibili ‘sfere d’ascolto’ che soppiantano l’idea dei ‘punti di vista’.[16]

Fino al finale dell’opera, in cui ‘sfera d’ascolto’ è proprio ciò che la madre auspica per il figlio, unica possibilità perché possa davvero raggiungerla e salvarla. Sporcandosi le mani in prima persona, senza ulteriori aiuti, senza alibi o scuse, affrontando le proprie responsabilità, che gli si presenterebbero se solo si mettesse davvero in ascolto, appunto:

«aprile bene le orecchie
in ascolto del più piccolo rumore
di ogni fremito di vento!
Nel pozzo sentirai
la voce del giuggiolo
e quella dell’acacia
la voce del noce e del melograno
e sentirai anche le grida dei boschi
di tutte le foreste che hai segato
di tutti i fiumi che hai avvelenato
oh sì
dovrai ascoltarli tutti quei lamenti
se no qua giù
in fondo
non ci arrivi!»[17]

Ugualmente sonora è la ‘bisciolina’ che con lei vive quel fondo oscuro e che ormai le è entrata dentro, come un male che scava e dal quale non potrà mai liberarsi davvero. La madre, infatti, dopo l’invocazione al figlio che pare perdersi nel vuoto, nel silenzio dell’ormai definitiva assenza di lui, si abbandona all’ascolto di quella, che canta e «dice delle cose»,[18] che guida ormai i suoi movimenti, la dirige attraverso un suono al quale lei si abbandona con una sorta di rassegnata disperazione. La stessa con la quale, incalzata dal «ziraaaa / ziraaaa… / ziraaaa…»[19] che le ingiunge la bisciolina, abbandona per la prima volta la propria immobilità dietro al leggio per lasciarsi andare a una lenta danza con la quale, roteando, guadagna il centro della scena. Uno spezzarsi della fissità e una perdita delle parole che coincidono con il dissolversi finale dell’opera, con la conclusione di Madre.

A rimanere da questa parte, però, in quel reale da modificare e da mettere in crisi così come Madre intendeva fare già nella sua vocazione originaria, è una piccola traccia tangibile, un’orma. Un quadernetto che richiama quelli di scuola di molti anni fa. Nessun ordinario libretto di sala per Madre: Stefano Ricci ha dato vita a quello che pare essere piuttosto un oggetto di scena rimasto impigliato tra le maglie del mondo reale al dissolversi di quello della finzione artistica.

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Copertina e pagine tratte dal quaderno realizzato da Stefano Ricci per Madre

Un quaderno interamente nero come il pozzo che si è chiuso alle nostre spalle ma che pare quasi schiudersi nuovamente ogni volta che ne sfogliamo le pagine sulle quali, tracciati con i medesimi gessetti bianchi, tanto i disegni di Ricci quanto le parole di Martinelli rinnovano le stratificazioni e gli enigmi che Madre ha generato. Anzi, li moltiplicano ancora. Le domande e le possibilità si disseminano: chi ha perso quel quadernetto? Di chi è la grafia che, come fossero appunti o memorie, ha tracciato quei versi bianco su nero? Della madre, come un racconto scritto per il figlio come monito o promemoria? Del figlio, come ricordo o esorcismo attraverso la scrittura delle proprie responsabilità? Un oggetto che sopravvive non come testimonianza e documentazione di uno spettacolo, ma come un frammento di esso, come un segno del suo essere tutto finto e insieme tutto assolutamente reale. Come un passaggio di testimone che, finito adesso nelle nostre mani, ci forza a non eludere quel manifestarsi delle immagini in suono, delle parole in ascolto, quello straziante «T’am sent?»,[20] il ‘Mi senti?’ al quale dare risposta, prima che sia troppo tardi.

Note
[1] C. Lispector, Un soffio di vita (pulsazioni) [1978], trad. it. di R. Francavilla, Milano, Adelphi, 2019, p. 18.
[2] In tedesco, infatti, i due rispettivi termini sono ‘Trauma’ e ‘Traum’.
[3] M. Martinelli, Madre, Ravenna, Ravenna Teatro, 2020, p. 6.
[4] Cfr. M. Kommerell, Il poeta e l’indicibile, Macerata, Giometti&Antonello, 2020.
[5] G. Agamben, La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Vicenza, Neri Pozza, 2005, p. 237.
[6] M. Martinelli, Madre, p. 2.
[7] Ivi, pp. 2-3.
[8] Cfr. R. Barbanti, Dall’immaginario all’acustinario. Prolegomeni a un’ecosofia sonora, Giulianova (TE), Galaad Edizioni, 2020.
[9] Ivi, p. 21.
[10] Ivi, p. 23.
[11] Ivi, p. 93.
[12] Cfr. J.L. Borges, M. Guerrero, Manuale di zoologia fantastica [1957], trad. it. di F. Lucentini, Torino, Einaudi, 1979, pp. 19-20.
[13] H. Müller, Anatomia Tito Fall of Rome. Un commento shakespeariano [2002], trad. it. di F. Fiorentino, Roma, L’orma editore, 2017, p. 70.
[14] Cfr. Ivi, p. 145.
[15] R. Barbanti, Dall’immaginario all’acustinario, pp. 97-98.
[16] Cfr. ivi, p. 86.
[17] M. Martinelli, Madre, p. 17.
[18] Ivi, p. 18.
[19] Ibidem.
[20] Ivi, p. 19.