Approfondimenti

“Ogni storia serve per raccontare l’uomo”

LA STAGIONE DEI TEATRI 2023-2024

In occasione de La Faglia, in scena  per La Stagione dei Teatri 2023/2024 da giovedì 1 a sabato 3 febbraio alle 21:00 al Teatro RasiFederica Ferruzzi ha intervistato il regista Simone Amendola.

Il percorso de La Faglia inizia nel luglio 2021 ad École Des Maîtres, che si è svolta al Teatro India durante il festival Short Theatre, quando alla compagnia Amendola / Malorni è stata commissionata una mise en éspace del testo di 25 minuti. Dopo questa prima elaborazione, il processo creativo è partito a dicembre 2021 con la prima residenza artistica a Vulkano, presso Ravenna Teatro, ed è poi proseguita a Lottounico, Roma, nell’aprile 2022, dove si è delineato ancor più chiaramente il progetto di messa in scena.

Simone Amendola, come è avvenuto l’adattamento del testo?

“Quello che è emerso dal lavoro di adattamento è una sintesi tra linguaggio e sguardo: il nostro teatro non è tanto incentrato sui temi, quanto sugli esseri umani e su come loro si pongono in relazione ad un determinato argomento che, in questo caso, è l’ambiente. Per la prima volta abbiamo abbandonato una scrittura nostra, anche perché dopo il lockdown c’era la necessità di raccontare le cose in modo diverso. Su questo ha influito anche il fatto che l’autrice fosse una donna, straniera, e di un’altra generazione rispetto alla nostra, con uno sguardo e con ambizioni tematiche diverse”.

Che tipo di lavoro è emerso?

“Il lavoro di questi due anni è stato particolare, dal testo sono emersi aspetti illuminanti: abbiamo cercato di compierne i contenuti anche attraverso un preciso adattamento scenico che partiva dall’idea di voler, prima di tutto, raccontare due esseri umani, e di farlo cercando di soffermarci su aspetti che non fossero ancora stati raccontati. Quello che per noi conta, indipendentemente dal tema, è un’angolazione per raccontare l’essere umano. Abbiamo fatto assorbire il testo dallo spettacolo evitando di scivolare nella propaganda”.

Il testo di Adèle Gascuel è molto ironico e solleva questioni diverse, anche di genere…

“Leggendo il testo ho avuto la percezione esatta che, se l’autrice lo avesse messo in scena, avrebbe fatto interpretare i due protagonisti maschili a due donne. Nonostante non ci fossero elementi per comprenderlo, ho capito quello che avrebbe voluto fare anche in seguito ad elementi di critica sul maschio che ho individuato tra le righe. Rispetto a questo aspetto, credo sia presente un elemento generazionale molto forte: un ragazzo di vent’anni mi diceva che, solo perché maschi, ci si debba sentire in colpa, e credo sia questo il pensiero che sta alla base di questo lavoro. C’è una rabbia che ancora dev’essere trasformata e credo che la nostra visione, come compagnia, abbia realizzato una mediazione assennata ed una rivendicazione nuova”.

Antonio e Cleopatra, “una favola che però è più vera del vero”

LA STAGIONE DEI TEATRI 2023-2024

In occasione di Antonio e Cleopatra, in scena  per La Stagione dei Teatri 2023/2024 da giovedì 25 a sabato 27 gennaio alle 21:00 e domenica 28 alle 15:30 al Teatro Alighieri, Federica Ferruzzi ha intervistato Valter Malosti, attore e direttore di ERT / Teatro Nazionale.

Dopo il debutto a Modena, e dopo gli spettacoli a Bologna, Valter Malosti porta il teatro di Shakespeare a Ravenna: una versione sfoltita del 50%, rispetto al testo originale, che promette di portare tutta l’essenza di Shakespeare al grande pubblico.


Malosti, come diceva Calvino, “Un classico è un testo che non ha mai finito di dire quello che ha da dire”: cosa ci dicono, oggi, Antonio e Cleopatra? Cosa fa dire, a loro, la sua regia?

“Antonio e Cleopatra è un classico, ma è sconosciuto: in genere il pubblico ha nella mente la figura di Cleopatra, chi è pratico di storia romana conosce il periodo legato a Marco Antonio, a Cesare, ma nell’immaginario collettivo esiste solo la figura della protagonista (qui interpretata da Anna Della Rosa, ndr). Il testo è complesso e Shakespeare, per scriverlo, prende spunto da due libri: La vita di Antonio, scritta da Plutarco, ne Le vite parallele, e Iside e Osiride. Emerge quindi una sorta di figura mitologica che, come sottolinea Enobarbo, un personaggio praticamente sconosciuto in Italia, ‘anche i santi e i sacerdoti benedicono quando pecca di lussuria’. Cleopatra mette insieme sacro e profano e l’eros è l’elemento principe di tutto il testo: per il pubblico si tratta di una estrema storia d’amore, pazza e libera. Come dice Nadia Fusini, per Antonio l’incontro con Cleopatra rappresenta una sorta di scoperta di sé, perché attraverso lei diventa se stesso”.

Il pubblico come lo ha accolto?

“Si tratta di un testo apparentemente molto popolare: in queste prime uscite tra Modena e Bologna abbiamo registrato un largo riscontro, è piaciuto a tutte e a tutti. È un testo molto diretto, popolare, ma al suo interno ci sono tante correnti sotterranee”.

Lei stesso è in scena nei panni di Antonio: qual è il contributo che dà a questo personaggio?

“La figura principale è indubbiamente quella di Cleopatra e solitamente gli attori italiani sono i primi a non voler vestire i panni di Antonio, in quanto è ritenuto un personaggio ‘tinca’ perché, così come il pesce, non sa di molto. Invece io lo ritengo un buffone tragico, una figura che permette di rendere estremo il pensiero. L’aspetto metateatrale, nel testo, è molto evidente, al punto che Antonio e Cleopatra sembrano due attori di Bernard, che si rinfacciano le cose in scena. Shakespeare era avanti anni luce: per lui la relazione con il pubblico è diretta, racconta una favola che però è più vera del vero. La cosa buffa che ho scoperto è che, avendo lavorato molto su Sogno di una notte di mezza estate, ho trovato parecchie parti in comune. Quando Antonio si dispera, ad esempio, sembra quasi Bottom, nonostante in lui viva anche una parte di Oberon”.

Antonio e Cleopatra è un’opera è molto partecipata: come è riuscito a operare questa riduzione?

“È stato un adattamento hard, ho tagliato quasi il 50% del testo, non sarebbe stato possibile fare altrimenti, lo spettacolo sarebbe durato 5 ore. Ritengo abbia fatto bene, al testo, essere sfoltito. Una cosa che ho evitato è stata quella di creare dei doppi: ogni attore fa un solo ruolo, un aspetto che sicuramente rende più difficile l’adattamento. Ne emerge un’opera scabra, quasi scultorea, che semplifica ma non lede le caratteristiche del testo”.

Tecnicamente l’opera di Shakespeare è una tragedia, ma pare che qui i registri si incrocino con grande facilità…

“Assolutamente: Shakespeare scrive in totale libertà, a lui non interessa rientrare in un genere, il tutto sta insieme e si tiene miracolosamente. Non c’è, per forza, un significato esposto, è l’insieme delle cose a darci la somma del tutto”.

Ettore Bassi: “Il Teatro? Una costola della vita”

LA STAGIONE DEI TEATRI 2023-2024

 

In occasione di Trappola per topi, in scena  per La Stagione dei Teatri 2023/2024 da giovedì 11 gennaio a sabato 13 gennaio alle 21:00 e domenica 14 alle 15.30 al Teatro Alighieri, Federica Ferruzzi ha intervistato Ettore Bassi, attore e protagonista di questo nuovo debutto.

 

Volto televisivo degli anni ’90 – in molti ricorderanno il maresciallo Andrea Ferri, protagonista della serie tv Carabinieri – Ettore Bassi ha coltivato, in parallelo, la passione per il teatro che oggi lo porta a debuttare, a Ravenna, nello spettacolo Trappola per topi diretto da Giorgio Gallione.

Bassi, lei ha iniziato lavorando come attore e conduttore televisivo, frequentando anche il cinema. Quando ha incontrato il teatro?

In realtà è successo abbastanza presto: era il 1994, è stato un primo spettacolo con Enrico Maria Lamanna, poi due anni dopo ho debuttato con Uno sguardo dal ponte, insieme a Michele Placido, un vero debutto teatrale che ha aperto una strada soprattutto in me. Quella è stata la conferma che il teatro, pur avendo avuto un breve percorso di formazione teatrale, sarebbe dovuto essere presente nella mia strada.

Tra teatro, cinema e tv, chi vince?

Dipende dalla storia, dal tipo di avventura che viene proposta. Sono forme diverse di rappresentazione, anche dal punto di vista tecnico, ma tutte ugualmente affascinanti e complesse. La differenza la fa la storia, il personaggio da interpretare.

A proposito di personaggi, lei ne ha interpretati diversi: ce n’è uno che le è rimasto addosso?

Sono rimasto legato ad un personaggio che forse pochi ricordano, il pediatra Corrado Milani di Nati ieri, una serie tv a cui ho voluto molto bene, ma che è stata sfortunata non certo per ragioni di qualità. In quel contesto ho fatto tante ore di tirocinio in ospedale, nel reparto di Neonatologia. Poi non posso non citare la serie tv Chiara e Francesco, in cui ho indossato i panni di San Francesco, ma ricordo con affetto anche Giorgio Piromallo nella mini serie insieme a Beppe Fiorello, dove ho avuto la possibilità, non scontata, di giocare con il mio personaggio e di poter esprimere la mia creatività.

Oggi debutta a Ravenna con un classico di Agatha Christie: che rapporto ha con questa autrice?

Questa autrice mi ha sfiorato diverse volte, tra l’altro il traduttore della Christie in italia, Edoardo Erba, è un amico. Sono molto contento e curioso di confrontarmi con questo testo e con il mio personaggio, nell’ambito di una trama scritta da un caposaldo della letteratura gialla.

A Londra questo spettacolo va in scena all’Ambassador ininterrottamente da 70 anni, e ogni volta miete successi. Cosa lo rende attuale?

È lo stesso meccanismo che rende attuale Odissea e tutti i classici, come ad esempio Il Gattopardo. Queste opere sono eterne, riguardano tutti e sempre. Sono scritte con sapienza, attenzione e un’epica in grado di far immedesimare lo spettatore in ogni momento della vita.

Nel 2017 comincia a lavorare come insegnante in varie scuole di formazione per attori: come trova le nuove generazioni, quali sono, oggi, le aspirazioni di chi si approccia a questo mondo?

Sono aspirazioni di vario genere: spesso molte persone cavalcano l’onda dell’illusione, perché questo mondo viene rappresentato attraverso i media e i social come qualcosa che offre rapido successo ed esposizione anche con poche competenze. Molti aspiranti attori sono illusi, trovo che quasi tutti abbiano un distacco quasi totale con la consapevolezza di sé. Molti sono disabituati rispetto alla percezione del proprio corpo e del proprio sentire: non camminano, quindi cerco di compiere un percorso che li faccia partire dall’inizio molto più di quanto abbia fatto io anni fa. Per questo, spesso, cerco di disilluderli: quello che mi interessa è la formazione più profonda, quella che si sostanzia. La situazione è abbastanza preoccupante, anche se questo aspetto si coniuga ad un’enorme facilità di approccio rispetto a materie che entrano nella nostra quotidianità e di cui si parla tutti i giorni. Quello che serve è un luogo in cui rimettere in ordine le cose, ed è per questo che ho iniziato ad insegnare: il mio obiettivo non è formare attori, la recitazione è una costola della vita. Grazie al teatro si vive meglio perché ci si conosce meglio, si è più utili al mondo e a sé stessi.

“La trasparenza totalitaria”, recensione su “Il Terzo Reich” di Romeo Castellucci

LA STAGIONE DEI TEATRI 2023-2024

 

In occasione de Il Terzo Reich, in scena  per La Stagione dei Teatri 2023/2024 venerdì 15 dicembre 2023 alle ore 21:00 e sabato 16 dicembre 2023 alle 17:00 e alle 19:00, al Teatro Rasi, proponiamo la recensione di Federico Ferrari “La trasparenza totalitaria” sullo spettacolo di Romeo Castellucci, pubblicata su antinomie.it.

 

Quando negli anni Trenta Victor Klemperer lavora al suo monumentale LTI (Lingua Tertii Imperii), analisi di sconvolgente acutezza delle storture semantiche e delle forzature linguistiche messe in atto dal Terzo Reich sulla lingua tedesca, l’Europa è sprofondata in una delle fasi più acute di diversi totalitarismi, da quello di stampo fascista a quello sovietico. Anzi, si può dire che Klemperer, attraverso una forma di filologia politica, mostri la genesi del totalitarismo, cioè di quella forma politica onnipervasiva che, nella sua visione totalizzante dell’esistente, arriva a minare la struttura stessa della comunicazione, portando la dimensione politica all’interno stesso della lingua. Lo stravolgimento della lingua quotidiana, l’affermazione di parole d’ordine incentrate sul Volk, la dimensione simbolica delle parole, fino alla tipizzazione dei caratteri, si configura, nelle pagine dei taccuini di Klemperer, come una forma estrema di ristrutturazione dello spazio pubblico e del suo senso. I totalitarismi novecenteschi sono l’estremo nostalgico esperimento di una rifondazione di senso, nello spazio nichilistico della società tardo ottocentesca e primo novecentesca. In fondo, l’allora cinquantacinquenne filologo ebreo, estromesso dall’università e non incluso nelle liste per la soluzione finale solo perché sposato a una ariana, registrava i segni o i sintomi di una battaglia per l’affermazione di una nuova dimensione del senso all’interno della più profonda e strutturante delle dimensioni metafisiche, il linguaggio. Martin Heidegger, negli stessi anni, aveva creduto di poter combattere la medesima battaglia all’interno del linguaggio, proprio accodandosi al nazionalsocialismo, visto come ultimo baluardo possibile al nichilismo. Il totalitarismo novecentesco è questo estremo e nostalgico tentativo.

Assistendo allo spettacolo di Romeo Castellucci, dal titolo Il Terzo Reich, ispirato in parte al testo di Klemperer, si ha la sensazione che gli anni Trenta siano, per tanti versi, dietro di noi ma, per alcuni, davanti a noi. In modo martellante ed estremamente irritante, su uno schermo nero, scorrono la quasi totalità dei sostantivi della lingua italiana, circa quattordicimila parole. La musica di Scott Gibbons fa assumere al ritmo di apparizione e scomparsa delle parole un senso vertiginoso. L’occhio riesce a fatica a riconoscere i lemmi. Lo spettacolo è frastornante. Si resta, dapprima, incollati con gli occhi allo schermo, cercando di afferrare il maggior numero di parole possibili. Ma lo sforzo per stare al ritmo fa montare un senso di insofferenza, che aumenta sempre più con il passare dei minuti. Il livello d’attenzione fatica a mantenersi. Lentamente, ma inesorabilmente, si cede. Le parole diventano segnali luminosi. Quasi immagini prive di significato. Ci si fissa, talvolta, su alcune lettere. Si arriva sino a provare un certo piacere estetico per la forma della parola. Ma tutto scorre. Ci si arrende. Si lascia che le parole si svuotino di significato. Si è quasi anestetizzati. Non c’è più alcun senso. L’intero insieme dei sostantivi si fa evanescente. Il linguaggio è svuotato di ogni sostanza. Si resta pietrificati e anestetizzati spettatori passivi di uno spettacolo senza senso.

Castellucci, come spesso gli accade, crea immagini, anzi, visioni. Anche questa volta riesce, in modo ossimorico, a rendere visibile l’invisibile totalitarismo dei nostri anni: il martellante flusso di significati che svuota di senso ogni cosa. Un totalitarismo della comunicazione globale e permanente che vorrebbe definire ogni cosa, rendere ogni cosa a una sua identità separata e definita, ma che ottiene o persegue esattamente il risultato opposto: nulla ha più senso per eccesso di significato, per eccesso di informazione, per eccesso di velocità del flusso di immagini che ci colpisce senza tregua. 
Il totalitarismo degli anni a venire sarà quello che già muove i suoi passi nella rete infinita, capillare e sempre più potente dell’informazione, cioè, di una parola ridotta a puro mezzo, veicolo di notizie. Un totalitarismo dai caratteri diametralmente opposti a quelli novecenteschi. Quello era un totalitarismo oscurantista, il nostro un totalitarismo dell’eccesso di luce, un totalitarismo della trasparenza assoluta.
Il prologo dello spettacolo mostra una sorta di scena primaria, di danza rituale che porta una figura spettrale a spezzare, con impietosa forza, una colonna vertebrale umana. Una volta spezzato il corpo umano, ciò che lo regge, non c’è più testimone. Per qualche minuto, la colonna resta illuminata ai piedi dello schermo. Poi, senza che nessuno vi presti davvero attenzione, cade nell’ombra. Non solo non c’è più alcuna figura umana, ma nemmeno la traccia della sua messa a morte. Non resta che il flusso intangibile di parole prive di significato, parole disincarnate, pura virtualità. Non resta che l’estetizzazione anestetizzante del linguaggio.

Parola senza corpo ma anche parola senza estasi possibile. Solo l’inutile affannarsi dello sguardo nel tentativo di afferrare un significato che immediatamente scompare, soppresso da quello successivo. Flusso inarrestabile che tutto travolge. Alla fine, alla fine di tutte le parole, non resta che il buio, la notte più profonda del senso. Forse è proprio nella profondità di questa notte, in questa oscurità senza più suoni né luci che occorre cercare per trovare vie di fuga e di resistenza al flusso ininterrotto e distruttore. Forse in questa tenebra, che si pone agli antipodi dello spettacolo iperluminoso del nuovo totalitarismo, si dà ancora o di nuovo la possibilità di un’altra luce, di una luce nera e resistente, fatta di carne e di corpi, dove la dimensione del senso è ancora possibile. O forse no. Forse siamo tutti così accecati da non vedere più la gabbia che ci contiene. Forse pensiamo davvero, in una forma di euforia da shock, di essere liberi sotto il giogo della più totalizzante delle forme sociali che la storia dell’umanità abbia conosciuto.

 

Marco Baliani e la centralità dell’ascolto

LA STAGIONE DEI TEATRI 2023-2024

 

In occasione di Kohlhaas, in scena  per La Stagione dei Teatri 2023/2024 da giovedì 23 novembre a sabato 25 alle 21:00 e domenica 26 alle 15.30 al Teatro Alighieri, Federica Ferruzzi ha intervistato Marco Baliani, attore e regista.

Marco Baliani @Luca Deravignone

Marco Baliani è tante cose: un attore, un regista, uno scrittore. Alla base di tutto c’è una fine capacità di narrazione che lo ha reso, sul finire degli anni ’80, involontario pioniere del teatro di narrazione. Una vita spesa a raccontare, prima ai piccoli poi ai grandi, poi ad entrambi, con la convinzione, come diceva Italo Calvino, che “sta al narratore organizzare i passaggi obbligati per arrivare alla soluzione della storia, tenerli su uno sopra l’altro come i mattoni di un muro e usando per cemento l’arte sua”.

L’autore di Corpo di Stato sarà ospite de La Stagione dei Teatri con due spettacoli – Kohlhaas e Una notte sbagliata (che si aggiungono a Frollo, contenuto nella Stagione Famiglie e Scuole) – accomunati dal tema del sopruso e del diritto violato.

“A me piace affrontare temi che riguardano il passato prossimo – osserva Baliani – ma non dal punto di vista del teatro civile: non voglio dare una spiegazione di come sono andate le cose, non mi piace l’intervento didascalico, tantomeno didattico, perché credo che il teatro abbia bisogno di conflitti. Se ci si pone dal punto di vista del cronista, allora questo lo sanno fare meglio i vari Travaglio, Iacona, che, infatti, riempiono i teatri. Con Corpo di Stato non volevo raccontare la vicenda di Aldo Moro, ma cosa è successo a me in quei cinquantacinque giorni. Sono stato spietatamente sincero, non volevo dare un giudizio storico, così come con Una notte sbagliata non volevo riferirmi direttamente alla vicenda di Cucchi, ma volevo analizzare la violenza sull’inerme. La mia è una domanda esistenziale, non politica. Non volevo trattare il fatto di cronaca, ma mi interessava fornire i diversi punti di vista di chi partecipa alla vicenda: per questo prima divento l’inerme, poi i poliziotti, poi il cane che assiste alla scena. Questo per dire che la realtà è più complicata di come appare. A me piace quando il pubblico va via inquieto, col ‘magone’. Non mi interessa suscitare indignazione, perché questo sentimento assolve colui che lo prova e serve solo a mettere la coscienza a posto. Quando il teatro civile fa questo, non pone domande, semplicemente espone un giudizio”.

Come nasce il teatro di narrazione?

“Teatro di narrazione è un’etichetta inventata dai critici Ugo Ronfani e Renato Palazzi, che vennero a vedere Kohlhaas, primo esempio di questo genere, nel 1989. In realtà lo spettacolo nasce due anni prima per le scuole, nell’ ‘87. La domanda da cui scaturisce è: ‘Come ci si comporta davanti ad un’ingiustizia subita?’, ovvero una delle tante domande che hanno a che fare con la complessità della nostra vita, che è fatta di luci e ombre. Amo le fiabe perché ci dimostrano che la vita è complessa e complicata, il protagonista non sa mai che pesci prendere, detto questo non avrei mai pensato di creare un genere. Da quella volta, tutti quelli che lavorano sulla dimensione dell’attore che, da solo, racconta una storia, vengono iscritti in questo filone, che nel tempo è diventato gigantesco e contempla anche cattedre all’Università. Forse ho solo dato inizio a qualcosa che era già nella società, semplicemente l’orecchio è stato rimesso al centro”.

Lei ha iniziato la sua attività lavorando con i ragazzi: com’è, oggi, il dialogo con le giovani generazioni?

“È un dialogo difficilissimo: poveri, quegli insegnanti, che hanno a che fare con nuove tribù di giovani. Oggi parte del sapere arriva dai social e non sappiamo ancora cosa produrranno questi strumenti; resta il fatto che, tramite un cellulare, passa un’ingente quantità di informazioni molto superficiale. Sono informazioni liquide, che però in un modo o nell’altro producono sapere e non possiamo fare finta che non sia così. Dovremmo iniziare a mettere al centro i sentimenti piuttosto che il logos. Prima, quando si studiavano gli Assiri, ci voleva tempo per ricercare le informazioni, ora è tutto immediatamente disponibile su Wikipedia. A questo punto la scuola si dovrebbe occupare del tempo residuo, del tempo che si risparmia nel non dover condurre la ricerca. I social non vanno demonizzati, credo che occorra barcamenarsi tra il futuro che ci attende e il passato che abbiamo. Non dimentichiamoci che il racconto ha cementato dai primordi il consesso umano e che quindi tutto è ancora possibile. Quando porto in scena lo spettacolo Frollo, i ragazzi stanno a bocca aperta dall’inizio alla fine, dimostrando che la voglia di ascoltare è insita nel nostro dna”. 

Per Rai Radio 3 insieme a suo figlio Mirto sta portando avanti il progetto l’Italia è una favola, in cui ad ogni regione viene associata, appunto, una fiaba. Quale ha scelto per l’Emilia-Romagna?

“Ho scelto La regina dello stagno, una fiaba bolognese che parla di animali. Ogni favola, e sono ovviamente venti, ha una caratteristica diversa: questa è governata da un’animalità totale e racconta di una regina immersa in uno stagno che ne uscirà grazie all’impegno del protagonista Sandrino. L’Italia è una favola è un progetto dedicato a Italo Calvino, sono fiabe rivisitate da me, con Mirto (suo figlio ndr) che si occupa delle musiche e, in appendice ad ogni puntata, c’è un dialogo con l’antropologo Marino Niola. È un lungo lavoro che mi riporta alle origini, a quando ho iniziato a raccontare fiabe ai bambini”. 

Oggi abita a Ravenna: cosa le piace di questa città?

“Abito a Ravenna da poco prima dell’alluvione, sono stato ‘battezzato’ da questo terribile evento. Ho vissuto tanti anni a Roma, poi a Parma e infine a Ravenna e sono dell’idea che non si possa vivere in posti brutti. Ho trascorso l’adolescenza ad Acilia, una borgata romana da cui sono riuscito a scappare grazie ai libri, alle letture, che mi hanno rivelato altre possibilità di vita. Ravenna è meravigliosa, mi piace la sua urbanistica, l’idea che dal centro, spostandosi verso la periferia, si incontrino case basse e non palazzoni”.

Dopo il primo dei tre spettacoli in Stagione, Kohlhaas, lunedì 27, alle 15.30, proporrà una lezione aperta al pubblico, di cosa si tratta?

“Sarà uno smontaggio drammaturgico dell’opera: ne racconterò la struttura ritmica, sarà una lezione di teatro per gli spettatori che lo hanno visto, ma soprattutto per tutti coloro che amano il teatro. L’ho fatto pochissime volte, da quando abbiamo creato lo spettacolo, ma è sempre una bellissima forma di trasmissione”.

Alessandro Leogrande, profeta del suo tempo

LA STAGIONE DEI TEATRI 2023-2024

 

In occasione di Alessandro. Un canto per la vita e le opere di Alessandro Leogrande, in scena  per La Stagione dei Teatri 2023/2024 sabato 18 novembre alle ore 21:00, Federica Ferruzzi ha intervistato Salvatore Tramacere, direttore di Teatro Koreja e curatore del progetto.

È un omaggio all’uomo, all’amico, ancor prima che allo scrittore e all’intellettuale, quello che Teatro Koreja rivolge alla memoria di Alessandro Leogrande, scomparso prematuramente nel novembre del 2017 a causa di un malore improvviso. 

Del resto, come ha fatto notare a più riprese un altro grande scrittore, Nicola Lagioia, e come ha ricordato Salvatore Tramacere, direttore di Teatro Koreja, nel corso di un’intervista che annuncia l’arrivo dello spettacolo al Teatro Rasi di Ravenna sabato 18 novembre (ore 21.00), “le persone ricordano non tanto i titoli dei suoi libri, ma lo spessore di un uomo che ha fatto, del sincero interesse per gli altri, una ragione di vita. Tempo fa, durante una conversazione, Lagioia mi faceva notare come, incredibilmente, più passavano gli anni, più cresceva l’interesse nei confronti di Alessandro. Ed effettivamente questo è un trattamento riservato a pochi, tra cui Pasolini, che è stato un profeta. Certo, si tratta di carature differenti, ma entrambi sono stati lungimiranti precursori del proprio tempo e di loro, prima dei libri che hanno scritto, si ricorda la persona”.  

Tramacere, come è avvenuto l’incontro tra Leogrande e Teatro Koreja?

“Alessandro era di Taranto, gravitava nell’orbita di Goffredo Fofi, ne era il vicedirettore in quanto aveva assunto la responsabilità di portare avanti la rivista Lo Straniero. Quasi naturalmente ci ritrovammo in situazioni che ci vedevano insieme, ma il motivo principale era il comune interesse nei confronti dell’Albania. Alessandro, da tempo, aveva cominciato a seguire questa realtà: si appassionò, ad esempio, al lungo processo legato alla nave Katër i Radës che il 28 marzo del 1997, giorno del Venerdì Santo, fu speronata nel Canale di Otranto da una corvetta della Marina militare italiana. Parallelamente noi lavoravamo con l’Albania, con cui avevamo una relazione da almeno 25 anni. Entrambi avevamo capito che i nostri fratelli si trovavano al di là del mare e che servivano nuove modalità di incontro. Ognuno lo faceva a suo modo, lui scrivendo, noi con il teatro. Ci siamo così ritrovati a percorrere le stesse strade: abbiamo incontrato scrittori, gente di teatro, di cinema. Alessandro aveva l’idea di un Sud che andava riscattato, ma questo riscatto non doveva passare necessariamente da una lotta culturale italiana: per lui esisteva un campo più esteso, quello dell’area Mediterranea. Il sud non è una questione di geografia, ma è un qualcosa che si ha dentro e che si può ritrovare a qualsiasi latitudine”. 

Cosa manca, oggi, a distanza di sei anni, di questo grande intellettuale?

“Manca la capacità di ascoltare, l’abilità, incredibile, di vedere l’altro senza giudizio, di giustificarlo anche nell’errore, una dote di pochi. Alessandro aveva la capacità di analizzare le situazioni solo dopo averle scandagliate per bene: non prendeva mai posizione per partito preso, o per principio, ma era sinceramente interessato all’altro, e questo non solo perchè era buono, ma perché voleva davvero capire perché accadevano le cose. Alessandro aveva una maniera diversa di approcciarsi alle questioni: prima di tutto le studiava, ed era capace di rivedere la propria posizione. Era una persona estremamente curiosa e scriveva di tutto, anche di calcio. Era consapevole che di ogni argomento si potesse trovare una lettura a più livelli. Era uno strano intellettuale, anche se non so se avesse piacere di essere definito così. A noi manca il suo pensiero critico, la sua attenzione. Mi capita spesso di pensare a cosa avrebbe detto Alessandro di fronte ad un determinato avvenimento, come lo avrebbe commentato, quale sarebbe stato il suo approccio. Manca la sua capacità relazionale, il suo sapersi mettere nei panni dell’altro, il suo interesse sincero, la volontà di capire realmente chi ci sta intorno”.

Come avete organizzato lo spettacolo?

“Lo spettacolo racconta la complessità di quest’uomo attraverso le sue parole e i suoi ricordi anche grazie all’aiuto di sua madre, che ci ha donato materiali straordinari per poterlo raccontare. Si tratta di un lavoro dove, oltre alla narrazione delle tante situazioni di cui si è interessato, dall’immigrazione al caporalato, abbiamo inserito il canto. In scena, però, ci sono quattro attrici che non sono propriamente cantanti, in quanto abbiamo inteso il suono a servizio della parola raccontata. Ci è sembrata la chiave per descrivere Alessandro in maniera più diretta: l’obiettivo non era quello di creare un ricordo – ci sono già ritratti bellissimi, come quelli tracciati da Nicola Lagioia – ma trovare una forma che lo potesse raccontare”. 

La figura di Leogrande era nelle corde di Teatro Koreja, da sempre testimone di un teatro di inclusione e di integrazione: qual è il cuore della vostra attività?

“Le corde si allungano, si spezzano, si attaccano: per noi è da sempre fondamentale il lavoro sul suono, sul canto, sul cercare di trovare e di trasmettere emozione anche tramite questi strumenti. Fin dall’inizio ci siamo caratterizzati per questo approccio al teatro e continuiamo a portarlo avanti perchè lo riteniamo un modo che ancora riesce a parlare all’oggi”.

Marco Martinelli e Ermanna Montanari presentano “DON CHISCIOTTE AD ARDERE” (intervista di Piera Raimondi Cominesi)

Di locande che si fanno palazzi incantati, di erranti, di maghi spiantati, di fantasmi e archetipi da evocare, di giochi di specchi misteriosi, di cenere e lingue brucianti, di sogni cuciti e della tensione alla perfezione come ferita sempre aperta…

Immersi nelle prove tra le stanze e i giardini di Palazzo Malagola, Marco Martinelli e Ermanna Montanari ci presentano – grazie all’intervista curata da Piera Raimondi Cominesi per Emilia-Romagna Cultura – i primi lampi, i primi dettagli relativi a DON CHISCIOTTE AD ARDERE | Opera in fieri 2023: il nuovo progetto legato alla Chiamata Pubblica per la città di Ravenna, che debutterà per Ravenna Festival il prossimo 5 luglio e in replica fino al 16 luglio!

Giuliano Scabia, “Il poeta d’oro”

Drammaturgo, regista, attore, pedagogo, romanziere e affabulatore, Giuliano Scabia è stato soprattutto un poeta. A raccontarlo, con un libro dal titolo Il Poeta d’oro (La Casa Usher), è il critico teatrale Massimo Marino.

attenzione L’evento di mercoledì 24 maggio, alle 18:00 organizzato da Ravenna Teatro insieme al festival Arrivano dal mare! è annullato

Scabia a Firenze, 1990 (foto M. Agus)

“Scabia cercava di decifrare la lingua, – spiega il critico Massimo Marino – le lingue dei nostri tempi confusi, di scavarle e portarle a consapevolezza. Lo ha fatto trascrivendo in poesia per musicisti come Luigi Nono agli inizi degli anni Sessanta il mondo dell’alienazione e dello sfruttamento della fabbrica; mettendo a punto testi teatrali come sguardo profondo sulla nostra società e su come cambiarla; inventando azioni di partecipazione con abitanti di quartieri periferici e di paesini, con studenti e con i ‘matti’, in mille situazioni”.

Il poeta d’oro racconta la storia e le opere di Scabia, restituendo una figura complessa, ma risplendente nel panorama culturale e artistico italiano, in viaggio continuo nelle trasformazioni della lingua e della società. All’interno delle esperienze condotte a Trieste da Franco Basaglia nel 1973, Scabia ha inoltre costruito con altri artisti, con medici, infermieri e pazienti, quel grande animale azzurro di cartapesta chiamato Marco Cavallo, simbolo della liberazione dall’oppressione manicomiale, contribuendo al processo che portò alla Legge 180 e alla chiusura degli ospedali psichiatrici.

Marino, perché un libro su Scabia? Come nasce?

“Ho iniziato a seguire Giuliano Scabia nel 1972, quando arrivò al Dams, e l’ho fatto intensamente fino a metà degli anni Ottanta. Successivamente ho continuato a seguirlo a distanza, ma il rapporto è stato sempre molto forte. Quando morì, nel maggio 2021, insieme ad amici e parenti ci siamo resi conto che, nonostante avesse rappresentato momenti importanti nel campo della letteratura, del teatro e della poesia tra fine Novecento e primi anni Duemila, la sua figura era ancora marginale. Mancava uno sguardo complessivo che ne facesse conoscere, prima ancora che apprezzare, la ricchezza. Così è nato il libro”.

Qual è il lascito di Scabia? Cosa rimane oggi, della sua lezione?

“Rimangono molte cose, e rimane tutto quello che ha lasciato negli studenti in trent’anni di corsi al Dams. Dopo la sua morte è stato creato un gruppo whatsapp in cui una novantina di persone, che lo hanno seguito intensamente, si scambiano informazioni. A Firenze rimane un archivio di suoi documenti che si costituirà in Fondazione; rimane un cavallo – anzi, per la verità ce ne sono diciotto copie, dal Brasile alla Russia – simbolo della liberazione teatrale nei manicomi; rimangono opere teatrali di grande rilevanza, alcune variamente riprese; rimangono i romanzi e le poesie. È stato il padre della cosiddetta ‘animazione teatrale’ e di esperienze specifiche: da poco tempo è stato pubblicato Forse un Drago nascerà ad opera di Babalibri insieme a studiosi e docenti dell’Università degli Studi di Milano Bicocca e si sta costruendo un laboratorio Scabia che attraversa i vari istituti universitari per rivedere un lavoro pedagogico ancora fortemente attuale”.

A cosa si deve il titolo?

“Il poeta d’oro è il titolo di un suo testo che racconta in modo favolistico l’infarto che lo colpì. È la storia della malattia che, a cavallo dei 40 anni, gli ha cambiato la vita e mi è sembrato particolarmente adatto anche perché Giuliano si portava sempre appresso un sole di cartapesta. L’infarto ha inoltre segnato il passaggio dal teatro alla narrazione”.

Com’era lo Scabia insegnante?

“L’attività al Dams lo ha impegnato dal 1972 al 2005: ad inizio anno presentava programmi molto affascinanti che però metteva da parte per esplorare il teatro. Chiedeva agli studenti di sondare i testi teatrali impegnandosi a creare con i corpi; il suo fare ha generato fortissimi coinvolgimenti che hanno segnato generazioni di studenti.

intervista a cura di Federica Ferruzzi